“La lettera perduta di Auschwitz”: la parola ai lettori

“La lettera perduta di Auschwitz”: la parola ai lettori


La lettera perduta di Auschwitz

di Anna Ellory

(Newton Compton Editore, 2019)


Pubblichiamo con particolare piacere le recensioni (la prima ironica e sopra le righe, ma con tanta verità, la seconda più seria, ndr) che un nostro lettore, Giovanni Scalera, ci ha inviato a proposito di questo toccante romanzo a sfondo storico che emoziona fino alla fine.

Commento (semiserio) a La lettera perduta di Auschwitz

Dopo averne letto più o meno metà (Capitolo 18), ho cominciato a scrivere una mia personale “recensione”; si fa per dire.
Al momento scrivevo nella testa, solo dopo l’ho messa giù in word.
Mi venivano in mente, a raffica, considerazioni di tipo goliardico, più che una vera e propria recensione di cui non sarei nemmeno capace (rimanga inter nos).

Prima di tutto il titolo più giusto, secondo me, sarebbe stato: Le tre sfighe (forse è meglio scrivere “le tre sfortune”, si dice così, tra persone serie) di Henryk, con sottotitolo Le Lettere scucite di Ravensbruck.

Perché Henryk?

Perché il vero protagonista è lui, tutto e tutti girano attorno a lui.
Quando faceva il professore s’innamora dell’allieva vispa e caruccia.
Quando si fa arrestare senza scappare mette nella cacca le sue donne.
Quando è malato grave non si decide a lasciare questa valle di lacrime (troppe, ahimè), rovinando la vita della figlia.
Sempre Henryk.
Tutto Henryk minuto per minuto.

Perché le tre sfighe?

Prima sfortuna:
Non è uno anaffettivo. Purtroppo.
Ama sua moglie, ma perde la testa perdutamente per la sua giovane e intrigante allieva (poco originale). Ed è amato altrettanto in profondo da entrambe, moglie e fidanzatina.

Conosco per esperienza personale quanto sia doloroso per tre adulti convivere con un trilemma simile, senza riuscire a risolverlo.
In certi casi è meglio essere anaffettivi: ami un’altra? E vattene con lei.
E che la moglie s’arrangi, si trovi un altro, è ancora giovane, belloccia, se ne faccia una ragione, che magari trova di meglio.
Secondo me succedeva così anche negli anni Trenta.
Invece no, ama tutte e due e le vuole entrambe. E lo vogliono entrambe.
Almeno avesse abbracciato la religione maomettana (così avrebbe avuto spazio perfino per una terza). No. È ateo.

Seconda sfortuna:
Il nazismo. Per chi c’è di mezzo è comunque una sfortuna. Lacrime e sangue e morte, per chi ci crede.
Per chi lo subisce da antinazista tedesco, è ancora peggio.
Fa bene leggerlo, non sapevamo nemmeno che vita facessero gli oppositori (pochi?) interni.
E lui, in modo pervicace e sadico, anche, visto che non si preoccupa delle conseguenze che patiranno le due donne che gli stanno d’accanto, senza essere ebreo, si oppone e non scappa nemmeno.
Un uomo tutto d’un pezzo. A danno delle sue donne. Di entrambe.

Terza sfortuna:
Il matrimonio sbagliato di Miriam, sua figlia, con un maschio non solo alfa, un maschio padrone e dominatore; lei è pure disturbatella, e vorrei vedere chi non lo sarebbe o non lo diventerebbe con questo padre ancora vivente e morente, che non si decide a lasciarci (così il libro-dramma finirebbe e con lui anche le sue sfighe) e con il marito che si ritrova.
Tanto disturbata che ti viene il dubbio per ogni scena: quello che descrive Miriam è vero, oppure è una sua invenzione, un parto della sua fantasia malata.

Tante volte non avessimo colto in diretta le tre-sfighe-tre oggetto del romanzo, l’autrice vuole farci vivere on-line le tristi vicende dell’uno e dell’altra, ora con l’io parlante, ora spostando la telecamera sulla testa del protagonista della scena (così dicono quelli che sono capaci di fare le recensioni).

E siccome mancava Frieda, ecco l’artificio: le lettere cucite nelle tasche della deportata (a Ravensbruck, non ad Auschwitz!) che ruba le matite (le biro non c’erano ancora) e senza tempera matita scrive e scrive e scrive.
Così anche le vicende di quarant’anni prima diventano un flashback on-line, una specie di telecronaca registrata.

Tutte le vicende vissute in diretta, tutta la sfiga, minuto per minuto.
Scusaciotti, scusaciotti la Frieda ha battuto il calcio di rigore, ma il portiere Blockova ha capito dove tirava e l’ha parato, Blocco22 – Germania, zero a zero.

Scusameri, ti interrompo dallo studio di Berlino-Est, Miriam ha appena segnato, ha preso le forbici e s’è tagliata la pancia. Miriam 1 – Lettori sensibili 0.

La linea torna a Henryk.
Aveva già rovinato la vita di Emilie (infatti le è venuto un tumore) e distrutto quella di Frieda (morta); adesso, sul risultato di due a zero, sta segnando il terzo goal: con i sondini nel naso e la sua lunga agonia vuole devastare anche la vita della figlia.

Qui finisce la recensione goliardica.


Commento (più serio) a La lettera perduta di Auschwitz

Parola turn’indré, dicono qui, nelle brumose lande dell’Insubria. Adesso spiego seriamente cosa penso del libro e della sua autrice.

Riconosco che, da metà circa in avanti, le pagine diventano più intriganti, la trama è avvolgente, i ritmi delle storie parallele incalzano. Intanto, tutte le incredulità della prima metà sono sospese.

Quali incredulità?
Come fa ‘sta tizia (Frieda) a scrivere lettere e lettere, corte e lunghe, in un campo di lavoro come Ravensbruck?
Dove trova la carta per scrivere i suoi pizzini? Qualcuno corto, qualche altro di duemila e più battute.
Come fa quando si spunta la matita? Ci pensa la Blockova a temperarla? Oppure la Kommandant?
E come fa la sua divisa a righine, da deportata, a contenere, cucite nelle tasche e negli orli, tutte le lettere che abbiamo letto?Sono pacchi e pacchi, sul tavolo di Miriam. Dove stavano prima? Frieda era diventata gonfia come l’omino Michelin?E, cambiando completamente argomento, come hanno fatto Henryk ed Emilie a concepire Miriam, in mezzo alla tempesta astiosa e velenosa della loro vita in comune?
Prima che Henryk fosse deportato? Impossibile.Al ritorno? Cioè, Henryk, consapevole responsabile della sorte di Frieda, dopo essersi salvato, ritornato a casa, così, en passant, si ritrova con Emilie e, con i modi giusti, la mette incinta? Non sembrava il tipo lui, nemmeno lei, e nemmeno la situazione.

La scrittrice, però, è così brava che riesce a creare quella che, alle scuole di scrittura creativa, chiamano “sospensione dell’incredulità”. E le crediamo.
Nella seconda parte del libro appare un altro soggetto, il protagonista assoluto, l’amore.
L’amore amicale, di chi non si aspetta niente in cambio ma aiuta e ama, fino alla morte come Hani, fino al rischio di essere imprigionata come Eva.
L’amore assoluto di Frieda per Henryk, con le espressioni tipiche di un amore lontano, del tutto diverse di quelle di prima; ma anche l’amore per le sue compagne del Blocco 22.
Le sue parole, per descrivere e condividere con l’amato la sua vita e la sua non-vita nel campo, le umiliazioni, le sevizie viste e quelle subite e vissute sulla pelle.

Stranamente, leggendo, siamo noi lettori a immaginare i dolori fisici di punizioni, angherie, sperimentazioni e  crudeltà di ogni genere inferte quasi per gioco dai carcerieri: li dobbiamo immaginare noi questi dolori, l’autrice si sofferma poco, preferisce fermarsi di più sui sentimenti positivi, sull’amore.
Poi, anche se i lettori più sgamati l’avevano già capito prima, solo quando Frieda avverte Henryk di essere incinta, solo allora il filo della trama si svolge e capisco anch’io che Miriam è la figlia di quell’amore sfortunato, il risultato del flirt (così verrebbe classificato oggi) tra il professore e l’allieva intraprendente e intrigante.

Le vicende che abbiamo letto, sordide in certi momenti (Emilie tradita, Axel padrone di sua moglie, i nazisti con le coniglie ed ancora in altri) diventano una disperata storia d’amore, un amore che ha bisogno di sognare una panchina nell’aldilà per trovare la speranza di un momento felice.

Ecco, lasciamo perdere la recensione da bar del Politecnico, oppure leggiamola come divertissement.
Quello che penso della Lettere perduta è qui.


Giovanni Scalera, lettore


 

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