“L’esorcismo del contagio” la pandemia per Dino Murgolo

“L’esorcismo del contagio” la pandemia per Dino Murgolo


L’esorcismo del contagio

di Dino Murgolo

(Zona Contemporanea, 2021)


  • Dino Murgolo, ex ricercatore di chimica-fisica e apprendista filosofo dilettante, è autore di un racconto e pamphlet che riflette eticamente sul momento di pandemia, si presenta e parla del suo libro.

Si sprecano le opere sulla pandemia. Io ne ho scritta una in cui insisto sulla circolarità, sulla retroattività delle nostre azioni che sono condizionate e a loro volta condizionano quelle altrui. A gran parte della realtà con cui interagiamo siamo portati ad attribuire una oggettività estranea ai nostri comportamenti e alle nostre proiezioni mentali. Il virus ci segnala che non è così. Siamo immersi in una circolarità senza scampo con la natura e l’ambiente di cui siamo parte costituente e questo deve richiamarci ai concetti di consapevolezza e di responsabilità.

Quest’ultimo, addirittura, un requisito progettuale inserito nel PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza che l’Italia ha presentato all’Unione Europea per accedere ai fondi di Next Generation EU.

Dino Murgolo

Non si tratta solo di abbandonare uno schema concettuale per un altro ma di interiorizzarne uno nuovo e più complesso in profondità. Non solo una questione, tutta aperta, di reciprocità da riconoscere, ma il sentimento della vita come dono ricevuto in affidamento da ciascuno di noi, da preservare e valorizzare e da trasferire in dote a chi continuerà dopo. Con il rischio della catastrofe ‒ questa sì, la vera minaccia pandemica ‒ se non saremo all’altezza del compito.

 

L’esorcismo del contagio è un po’ pamphlet e un po’ auto fiction. Dunque, commistione di generi e, perciò, di stili. Ho usato la tecnica della giustapposizione di patches di genere (e-mail, telefonate, incontri, ricordi, riflessioni, commenti a fatti di cronaca o all’attualità politica, parti di taglio “saggistico”), sviluppandone ciascuna in diverso grado, seguendo l’ispirazione del caso, badando comunque che, alla fine, tutto si tenga. Mai però senza perdere di vista lo humour (spero che il lettore ne colga la patina) anche nella più tragica delle situazioni.

Lo spunto narrativo l’ho chiamato, in antefatto, un caso di precauzione esagerata. L’io narrante, sei anni fa, di punto in bianco, annuncia ad amici e parenti della città incombente (Trieste, presa a metafora della civitas post-pandemica globale) il suo intento di porsi in auto-quarantena sociale. L’infezione di cui avverte la minaccia e a cui vuole tentare di sottrarsi è la competitività, l’ambizione, la ricerca delle conferme ai pregiudizi nella cultura di riferimento e nelle appartenenze di prossimità, l’autogiustificazione attraverso i riti identitari, l’offuscamento a se stessi, il non riconoscimento, delle motivazioni e dei disvalori che muovono gli impulsi individualistici su cui costruiamo le nostre persone nella socialità soffocata del nuovo millennio.

Una lotta impari tra l’aspirazione all’autenticità e la rassegnazione all’ambiguità, il cui esito resta sospeso fino al finale assorto sul panorama in chiaroscuro del golfo, che non fa presagire niente di sereno per il post-pandemia. Con quella domanda: “saremo migliori?”, che raggira, una volta di più, il presupposto scandaloso della natura non oggettiva del “bene”. Che non è mai una risposta bensì un interrogativo eternamente sospeso sulle nostre coscienze, che non smette mai di interpellare la nostra responsabilità.

L’insorgenza dell’epidemia da coronavirus riveste dunque il significato di conferma materiale di un presagio e di un disagio ancestrali, che possono affiorare anche alla superficie della coscienza. Nell’inversione dei piani, la realtà diventa metafora della dissonanza ideale su cui essa si regge.

Esprimo una duplice riconoscenza.

La prima va al Carlo Rovelli di Helgoland che mi ha ispirato, a cose fatte, la scrittura dell’appendice La realtà come rete di relazioni. Dove, sempre in relazione alla pandemia, dico la mia, da ex ricercatore di chimica-fisica e da apprendista filosofo dilettante, in materia di conoscenza scientifica e – spero di non spaventare nessuno – di significato della realtà così come essa si manifesta alla “coscienza” umana. Mi sento in profonda sintonia con il pensiero di Rovelli, talché mi sono imbarcato nella lettura della sua opera omnia. Trovo, quanto di più illuminante oggi in circolazione per chi voglia istruirsi sulle frontiere più avanzate della fisica teorica e sulle loro implicazioni per farci comprendere meglio il posto che il nostro impalpabile alito di vita occupa nella gigantesca e palpitante trama dell’Universo.

La seconda a Gilberto Corbellini, esperto di metodologia della scienza di cui non mi perdo un articolo quando esce sulla Domenica del Sole 24 Ore o su Scienza in Rete (grazie a Furio, uno dei miei personaggi, che me l’ha segnalata): riviste, rispettivamente cartacea e on-line, di cui mi sentirei di raccomandare la consultazione sistematica agli studenti delle scuole superiori di qualsiasi indirizzo di studi. Corbellini mi intriga per la vis polemica condita da una punta di scientismo da cui, personalmente, vorrei astenermi. Ma, soprattutto, per l’interesse, che condivido con lui, per i cosiddetti bias cognitivi. Cioè gli autoinganni mentali (pregiudizi, stereotipi, conferme ingiustificate delle proprie convinzioni, eccetera) che – come osserva lo stesso Corbellini – fanno sorridere e sentire tutti molto intelligenti quando se ne parla (di quelli degli altri) negli articoli divulgativi di neuroscienze, ma che coinvolgono ciascuno di noi nella quotidianità e, più che mai senza scampo, nelle nostre capacità di risposta ai rischi di catastrofe collettiva.

L’esorcismo del contagio è, appunto, una rassegna in presa diretta di bias cognitivi. Una propensione umana ineliminabile, che svolge in certi contesti perfino funzioni di utilità adattiva, ma che, se non controllata, si presta a mille manipolazioni (a partire dalla propaganda politica) e produce mille distorsioni della realtà, come, per esempio, il rovesciamento percepito di cause ed effetti reali o l’adozione di soluzioni che aggravano i problemi anziché risolverli.

Internet, in particolare, è una straordinaria risorsa per la diffusione universale della conoscenza ma i social media, non di rado, diventano un fattore di accelerazione di una tale, umanissima, tendenza, gravida di pericoli. Che ci spinge ad rispecchiarci tra simili e a renderci sordi tra diversi – anche quando non lo facciamo deliberatamente – secondo il criterio del consenso superficiale e della conferma pregiudiziale piuttosto che del confronto informato e della discussione approfondita. Non il migliore tipo di esercitazione individuale e collettiva per addestrarci ad affrontare le sfide della complessità, come la pandemia. E, non di rado, il brodo di coltura delle fake-news oggi dilaganti, e delle loro strumentalizzazioni politiche.


Dino Murgolo, autore


 

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