“Scandalo in Val Gardena-Nessuno resterà impunito” di Glambagio
Scandalo in Val Gardena – Nessuno resterà impunito
di Glambagio
(Giovane Holden edizioni, 2022)
Di cosa parla
Di quel bambino, in un paesino sulle Dolomiti, non ne vuole sapere nessuno. Non il padre, non le zie, nemmeno il sindaco o il prelato. Perché quel bambino è illegittimo, e la sua sola esistenza, in quegli anni Cinquanta, è motivo di vergogna per tutta la comunità. Solo il grande, intrepido amore della madre lo fa venire alla luce, e gli consegna un nome in cui racchiude tutta la folle speranza per il rifiorire di un futuro migliore. Ma è un futuro che lei, la bella e intrepida Katharina, non conoscerà.
I fili tessuti dal destino ricamano storie che gli uomini non possono comprendere. Quando una mano provvidenziale strappa il piccolo dagli artigli della tragedia, non sa che con quel gesto pietoso sta avviando una catena di eventi sbalorditivi, che a distanza di anni e anni porteranno quel bambino a divenire un uomo colto, ricco e potente. E quando la verità viene finalmente svelata, ecco che il temibile uomo sbocciato da quel bambino abbandonato scatena la propria vendetta implacabile.
Romanzo intenso e appassionante, costruito su un intreccio complesso come la vita ma sempre lucido come la determinazione del suo protagonista, un Edmond Dantes contemporaneo che un profondo, inesorabile senso di giustizia personale spinge fino agli estremi. Una storia che pagina dopo pagina sale come un’onda di indignazione e di commozione, per poi rovesciarsi in un disegno spietato di rivalsa.
Cosa ne penso
…“inciampare” nel destino.
Riflessioni di Gabriella Cinti sul romanzo di Clambagio
Leggendo il romanzo osserviamo che già in apertura si stagliano due personaggi posti in netta antitesi di cui il primo è Manfred, calcolatore, egoista e arido quanto volgare. Le persone sono per lui pedine di un gioco d’affari, da trattare con la stessa freddezza, senza scrupoli di sorta.
Lui è il prototipo del musiliano “uomo senza qualità”, tutto luoghi comuni e “banalità del male”. Un personaggio bieco e senza anima, incapace di provare sentimenti genuini e pronto all’istante a rinunciare anche alla sola ipotesi di vivere un amore, pur di assicurarsi una solidità economica.
Katharina, la protagonista femminile, si presenta subito come l’opposto. La troviamo già annunciata, ancor prima di vederla, come portatrice di una bellezza e di una grazia che anticipano la sua fisionomia interiore. I due rappresentano esattamente i poli antitetici, ma il femminile spicca per fermezza e netta superiorità- che si trasformerà in vero eroismo – e soprattutto per un’integrità assoluta, refrattaria a qualsiasi compromesso per una concezione sacrale quanto spontanea, dell’amore che apparenta la donna alle antiche eroine della tragedia greca.
La sua onestà e la sua purezza dovranno misurarsi con il clima soffocante dal punto di vista della mentalità, presente in Italia negli anni Cinquanta del Novecento e particolarmente nel chiuso della provincia. La Val Gardena non ne era immune e la collocazione così a nord d’Italia indubbiamente non l’aveva graziata in questo senso. Le figure maschili risultano particolarmente standardizzate, come il prete del paese, un essere freddo e convenzionale. Pensa per dogmi, abdicando così a quella misericordia che avrebbe dovuto essere la principale missione della sua vita. In lui possiamo leggere il retaggio archetipico del prelato manzoniano divenuto leggendario.
Nega a priori le legittime e umanissime richieste della ragazza, brandendo i sacramenti come spade affilate contro gli esseri umani, preoccupato esclusivamente di essere in regola con il rigido protocollo dogmatico del cattolicesimo. Ma vi è di più. Incarna una spietatezza che si insinua in ogni prevaricatore a questo mondo, specialmente ammantato di un potere, quello sacerdotale ancora particolarmente importante nella società dell’epoca. A questa insensibile miopia si aggiunge, aggravandola, il pregiudizio etnico di differenziazione tra gli abitanti del luogo e gli “italiani”, palesemente percepiti non solo come stranieri, ma soprattutto come ospiti indesiderati. L’antica questione etnica, protrattasi fino ad oggi, rivela qui il suo volto storico denunciando una convivenza tra i due gruppi forse mai del tutto pacificata, e allora decisamente spinosa.
In un contesto di egoismo sociale, la figura del prete si esibisce in un crescendo di durezza e crudeltà al confine tra il tragico e l’esilarante (se la gravità della situazione non lo potesse nemmeno far concepire) fino al macchiettismo di un linguaggio apocalittico, roboante quanto vuoto, stereotipato e anonimo: un esemplare di ideologia religiosa al limite del fanatismo e del delirio.
La Val Gardena sembrava essere largamente contaminata da una mentalità gretta e bigotta, che si evidenzia per esempio nella reazione della sorella di Katharina, Karin, dopo l’improvvisa tragica scomparsa della ragazza: un’indifferenza gelida e piena di pregiudizi estesa fin nei confronti del bambino rimasto orfano. Ma non brillano per slancio nemmeno le altre sorelle e la stessa madre di Trina, che sembrano fare a gara nello scansare le loro responsabilità per una serie di poco convincenti motivi: Margareth e Karin sono infatti chiaramente dipendenti – quasi succubi – dai preconcetti dei loro mariti, cui non oppongono alcun tipo di resistenza. Nel nucleo familiare della giovane, dunque, è del tutto assente quella pietas che più che un valore, è quasi un sentimento biologico, storico e forse preistorico, se pensiamo a culti familiari rinvenibili in tempi ancestrali e a livello planetario.
L’ambiente sociale rimane in secondo piano, ma l’autore mette nitidamente in luce le sacche di povertà diffuse negli strati fragili di popolazione come nel caso della nonna Insam, e tutto ciò fa risaltare con maggiore crudezza, al di là delle considerazioni sociologiche, la natura egoistica dei suoi familiari, al limite della assoluta disumanità, una tabe che sembra connaturata in questo gruppo, tanto da produrre la sensazione che la figura della ragazza, con il suo coraggio, la sua dirittura, sia geneticamente estranea al suo ambito parentale.
Il romanzo si gioca su due piani, quando la vicenda si sposta in area fiorentina, dove il piccolo protagonista porta nel nome e nella sua anima infante, un’impronta di salvezza e di rinascita che lo riscatterà dalle miserie morali e materiali dell’ambiente in cui è nato. Nel nome, così legato allo splendore della cultura rinascimentale italiana – Leonardo Donatello – vi è un carisma profetico, una invisibile corazza che in modo forse talismanico lo salverà dalla morte per inedia, aiutandolo a resistere alle prove estreme a cui, per incuria e perversa stolidità, il suo fragile stato neonatale verrà esposto.
In effetti, l’angusto mondo gardenese, provenienza di Leonardo, sembra rimanere sullo sfondo, come un fantasma sospeso nella sua vita, nella nuova dimensione del suo essere, ma sarà proprio la scoperta della verità sulla sua adozione che lo getterà in uno stato di crisi interiore.
Qui si fa strada un conflitto tra due visioni del mondo, che sembrano essere anche dell’autore, tra la fiducia forte nella costruzione volitiva della propria fortuna e il riconoscimento di una Potenza che decide delle sorti umane, del tutto avulsa da ogni possibile controllo personale.
Un anelito impetuoso di giustizia si fa strada in Leonardo, che sfocia in desiderio di rivalsa; in ogni caso assistiamo a una sorta di dissociazione della sua identità, in cui l’acquisizione dell’esistenza di radici genealogiche diverse, procura un disagio e un disorientamento radicali che smantellano le certezze della sua vita precedente e aprono un altro rivoluzionario scenario di vita. Il romanzo illustra il sottile crescendo della sua inquietudine, una sorta di autocoscienza (che rinvia alle conoscenze psicoanalitiche dell’autore) che innesca una nuova esistenza in cui una diversa consapevolezza manda in crisi l’identità precedente, una sorta di spartiacque tra due epoche.
Interessante vedere come Clambagio riesca finemente a sdoppiare gli stati d’animo di Leonardo, che si manifestano anche con uno stile espressivo conforme, collocando in una sorta di sublimazione di sé l’amico Guarniero, un pacato grillo parlante che lo incita a far prevalere i sentimenti migliori e compassionevoli al fine di lenire il dolore con il balsamo della bontà e non cedendo agli impulsi violenti e mai realmente gratificanti della ritorsione.
Ma una sorta di macchina da guerra, perfettamente congegnata, si delinea a livello progettuale nella mente di Leonardo, quasi si impadronisce di lui: egli, infatti, sottoporrà a una sorta di contrappasso tutte le persone – soprattutto il padre biologico – coinvolte nell’atteggiamento crudele nei confronti di Katharina e di suo figlio. Il piano meticolosamente attuato lo porterà tuttavia ad entrare in una spirale di angherie che sembra crescere esponenzialmente in lui, una forza cieca, travolgente, che richiama echi di tragedia greca, nonostante le forme strategiche moderne messe in atto. Un archetipo di vendetta che sembra inizialmente appagarlo ma finisce poi per sommergerlo con un carico di energie negative, portandolo ad allontanarsi dai valori umani positivi assimilati nella sua educazione.
Vi è un momento in cui egli si trova ad un bivio identitario collocato dentro di lui, una furia che nasce da una sofferenza quasi intollerabile – per giunto esplosa di colpo nella sua vita – una pena in cui la collera prevale sulla sofferenza dell’“orfanitudine” biologica, a causa di un percorso non potuto vivere, quello della filialità naturale. Il senso di smarrimento che lo turba, è segno di quanto gli influssi ereditari possano connotare il nostro carattere nel profondo e che occorra una rinascita ad altra condizione – pur passando anche attraverso il girone infernale delle azioni punitive – fino a che uno spirito di misericordia possa operare un nuovo faticoso equilibrio e sanare le ferite interiori.
L’odio viene, in un certo senso, assimilato a una sostanza biologica che produce dipendenza, un “cordone ombelicale” tossico da cui faticosamente staccarsi per aprirsi all’uomo nuovo, ricco di una sofferta ma solida armonia interiore. Ma non si tratta solo di rancore. La destabilizzazione cala su Leonardo già da prima, quando, nella sua Weltanschauung monolitica, aveva nutrito una fiducia totalizzante nella possibilità dell’uomo di forgiare da sé la propria vita, facendo dell’idea filosofica ed etica del libero arbitrio, un costume mentale privato. L’apprendere della sua vera nascita e della successiva adozione, porta nella sua vita l’accecante presenza del destino che guida l’uomo e prescinde dalle volontà dei viventi, che si illudono di fabbricare qualcosa ignorando che la Sorte – la Tyche greca – è una Dea che li guida a suo piacimento, come le Moire che tessono la trama delle loro esistenze.
La ridda dei “se” piove sul capo sconcertato del protagonista, inducendo in lui un cambiamento di visione, verso una maggiore complessità intellettuale e morale, una visione più chiaroscurata, seppur nelle ansie che produce: in cui i poli ritenuti opposti – fatalità e libera scelta, amore e odio, bene e male – arriveranno a intrecciarsi in nome di un divenire che deve attraversarli e a talvolta congiungerli, per evolvere verso la propria salvezza interiore. L’esperienza di shock e il successivo intimo sconquasso, generano il potere maieutico di far emergere una nuova coscienza nel suo animo e ampliano la dimensione dell’amore, forgiato da sensazioni ancor più brucianti, in quanto il dolore si è abbattuto come un fulmine su di lui.
Questo percorso è particolarmente difficile in quanto non coglie Leonardo nella età evolutiva, quando la propria identità è flessibile e in divenire, ma da giovane adulto, quando la fase di strutturazione della personalità è ormai consolidata e un evento traumatico come questo richiede un’energia assai maggiore che se fosse accaduto in età adolescenziale. E questo compito, così arduo, nelle sue risultanze è ancora più catartico. Infatti, Leonardo riuscirà a riprendere le redini della propria vita e a pilotare i suoi stessi impulsi, non disconoscendoli, ma misurandosi con essi, arrivando così, con smagata lucidità, persino a riconoscere una qualche eredità biologica in una certa sua ritrosia emotiva e in un temperamento inaspettatamente facile a cedere ad impulsi di rabbia, pur nella pianificazione concettuale del suo progetto vendicativo.
Vi sono addirittura passi del libro in cui la negatività di Manfred, suo padre naturale, vero antagonista, giunge a contaminare sottilmente il comportamento di Leonardo: subdola come è il male, si insinua nel suo linguaggio, che si dimostra influenzato da una sorta di mimesi o sdoppiamento linguistico nelle espressioni rozze e volgari, stridenti con il suo linguaggio forbito e beneducato, che il raffinato fiorentino si ritroverà a pronunciare – spia di un veleno morale contagioso – e nelle maniere spavalde e tracotanti che il nostro assume al primo colloquio con il suo padre-nemico.
Per quanto riguarda le peculiarità dello stile di Clambagio, vorrei mettere in evidenza come il suo stile scrittorio sia marcatamente dinamico, affidato come è ai dialoghi che si succedono incalzanti: le azioni paiono visualizzate in presa diretta, come fotografate con le parole. Nondimeno, il pensiero dell’autore si fa ampiamente strada nelle pieghe dei discorsi, in alcuni scarti bruschi, come inizi di confessioni che indirizzano il lettore allo strato sotterraneo degli stati d’animo, dei pensieri, soprattutto di Leonardo. Ci sono poi alcuni snodi in cui, attraverso le sensazioni e le amare riflessioni espresse della donna in forma mediata, il lettore giunge a contatto in modo palpitante con il suo mondo interiore. Grazie al filtro con cui l’autore talvolta interviene con dei momenti di discorso indiretto, si attiva un coinvolgimento frutto di una consapevolizzazione che matura rivivendone i suoi echi interni. Si tratta di una elaborazione emotiva che si espande dalla coscienza di Katharina, una luce riflessa della sua aura, e produce nel lettore una complicità empatica per la sua sensibilità ferita.
Il vero centro del romanzo è dunque questa donna, eroina storica e personale di Leonardo e simbolo di una condizione umana di vittima sacrificale. Il contesto sociale dell’epoca ha reso la sua sfortunata vicenda un dramma di incomparabile perfidia, che vede schierati una serie di carnefici in una sorta di non premeditata coalizione. L’epilogo della sua storia, nella asciutta e filmica versione dell’autore, affidata ai dialoghi in cui l’azione si produce in diretta, riproduce un martirio sacro accaduto in epoca moderna e l’effetto non è solo la pena struggente per la sua innocenza calpestata, ma il senso arcaico di sacrifici secolari che tanto hanno investito il femminile. Molti sono i volti con cui violenza si abbatte sul femminile, spesso più inerme e soprattutto fiducioso senza riserve.
E la colpa indelebile – che si manifesta come una duplice crudeltà, sentimentale e fisica – di quella tipologia maschile incarnata da Manfred, non è solo la malvagità di cui comunque si macchierà; più inaccettabile risulterà infatti quel tradimento affettivo, quella slealtà sacrilega nei confronti dell’unione amorosa e per giunta per futili motivi, per viltà e abissale miseria umana. Cori invisibili di martiri sorelle sembrano alonare il suo corpo delicato strappato brutalmente alla vita. Ma la donna lascia un dono d’amore immenso che sarà il suo più grande lascito, un tesoro di eredità, di cui il figlio custodirà come reliquie le poche tracce materiali, una lettera, una catenina, la sua foto, che diventano offerte sacrali ai Lari, a una figura già santificata dalla sua immolazione. La lettera addirittura, dal candore disarmato e commovente, diventa l’unica voce che il figlio possa ascoltare, ma testimonianza purissima: un pegno da conservare al centro del cuore e un segreto monito a diventare degni di questo amore incondizionato.
Ecco che l’eroismo e la profonda onestà morale, si stagliano su uno sfondo familiare e collettivo di una meschinità e di una grettezza inaudite, di una chiesa piena di falsità e di Don Abbondi ancor più truci e di una famiglia che si fa in qualche modo complice di omicidio con quella scellerata indifferenza che non concede attenuanti, con quel palleggiamento di responsabilità rifuggite che ignora totalmente anche il più elementare senso di pietas umana: colpa gravissima perché compiuta nel seno di un nucleo familiare da cui sarebbe naturale aspettarsi l’opposto. In questo mondo torvo, che contrasta in modo clamoroso con l’apparente confidenza e cordialità dei rapporti di un piccolo centro montano, dove tutti avrebbero dovuto avere a cuore le sorti dei loro compaesani, circondati dalla bellezza amena del paesaggio, in una atmosfera di condivisione basata sulla vita vera e non su quella virtuale di oggi: proprio qui invece si consuma un dramma efferato degno delle torture inflitte nelle segrete di un castello da crudeli feudatari medievali.
La collocazione nel passato non suona mai come un’attenuante per i pregiudizi del tempo, anzi, alla fine, mette in luce l’indifferenza di fondo del gruppo, il feroce egoismo – che è il più spietato dei mali – e fa risaltare, per converso, la luce rara dei pochi che si opposero a questo olocausto, come il maresciallo Dal Pian, figura non secondaria non solo per la sua umanità ma per il suo ruolo di deus ex machina, o di angelo laico. Non ci stupisce nemmeno che fosse italiano e trattato con sufficienza dall’enclave locale, abbagliata dai pregiudizi etnici. Risulterà infatti tra gli eletti e i premiati, a fronte dei castighi inflitti ai colpevoli, in quella sorta di anticipo di Giudizio Universale messo in atto dal protagonista, nei panni di un “Giustiziere della Vita”, tema questo già molto caro all’autore e al centro del suo precedente romanzo “Shamash”.
Come dalla pira di un rogo, un immenso indice accusatorio, che farà inciampare in eterno i colpevoli (se lo scandalo etimologicamente in greco antico è proprio la pietra d’inciampo – come quelle ebraiche – e quindi un monumento alla memoria), degno di una visione da film di Bergman, sembra sollevarsi dalle pagine del libro, oltre la storia, oltre la verosimiglianza della narrazione, per diventare paradigma di una alta e solenne condanna della bassezza umana, una palpitante elegia – velata da un discorso diretto, irruente ma vibrante di emozione – dell’amore familiare e della martire Katharina, emblema dell’Assoluto materno.
Recensione a cura di Gabriella Cinti