Intervista a Luigi Bolognini, noto giornalista di La Repubblica
Questa volta Fausto Bailo e la Premiata Libreria Marconi di Bra (Cn), che ringraziamo, hanno reso possibile questa bella intervista ad una penna nota di “La Repubblica“: Luigi Bolognini (nella foto a sinistra), giornalista sportivo che si occupa anche di spettacoli.
Nel 2003 esordisce come scrittore con il libro Gli eroi sono tutti giovani e belli edito (Lìmina), nel 2007 viene dato alle stampe lo splendido libro La squadra spezzata (Lìmina), di recente ripubblicazione con la casa editrice – 66th and 2nd –
Quali le motivazioni che l’hanno indotta ad affiancare all’attività di giornalista sportivo quella di scrittore?
“In generale si dice che ogni giornalista abbia almeno un libro nel cassetto, quindi credo che le mie motivazioni non siano diverse da quelle di tanti altri miei colleghi, e le riassumo in due: la voglia di evadere dalla quotidianità, dal racconto legato all’attualità, e la voglia di provare a scrivere in un modo diverso, dato che lo stile giornalistico deve forzatamente essere diverso da quello letterario.
O meglio, si può scrivere un romanzo con stile giornalistico o un articolo con stile letterario, perché poi le sfumature dei vari stili sono infinite (quando Eco disse che Gianni Brera era Gadda spiegato al popolo intendeva anzitutto proprio lo stile letterario con cui Brera scriveva le proprie cronache calcistiche), ma alla fin fine giornalista e scrittore restano due mestieri diversi. Non a caso quando in tv c’è un giornalista e scrittore, entrambe le qualifiche vengono indicate, unite dal famoso trattino giornalista-scrittore. Insomma, è stata un fuga che spero si ripeterà se mi tornerà una buona idea”.
Quanto ha sentito parlare per la prima volta della squadra Aranycsapat?
“Direi nell’adolescenza, quando sono diventato un malato di calcio e ho iniziato a leggere enciclopedie, storie, romanzi, tutto quello che riguardava il calcio. Non poteva non colpire la storia di una squadra che gioca in un modo eccezionale e innovativo, che schiaccia tutti e che su 50 partite ne perde una, ma quell’una è la finale della Coppa Rimet. Ecco, una storia così è di quelle che a inventarle trovi qualcuno che ti dice “troppo fantasiosa”. E invece è vera”.
Quale è stata la scintilla che l’ha portata a scrivere il libro La squadra spezzata?
“L’idea è nata nel 2006, 50° della rivoluzione ungherese e della sua repressione da parte dei sovietici. In molti degli articoli di rievocazione si faceva accenno a quella squadra e ai suoi giocatori, ma senza approfondire troppo il tema. Decisi quindi di cercarmi un libro che parlasse dell’Aranycsapat e scoprii che in italiano non c’era.
Così decisi di scriverlo io. Ma man mano che raccoglievo materiale mi accorgevo che un saggio non sarebbe bastato, o meglio che sarebbe stato complesso per via dell’intrecciarsi continuo di politica e calcio. In più avevo varie fonti storiche, ma nessuna di mia, originale, per cui pensai che col romanzo avrei potuto meglio mescolare il tutto, e in più narrare quegli anni non solo dal punto di vista oggettivo, dello storico, ma anche soggettivo, del popolo ungherese, che io ho simbolizzato e riassunto in un bambino con le sue emozioni, i suoi sogni, le sue delusioni”.
La squadra Aranycsapat possiamo definirla come una nuova visione per Ungheria socialista, sia in campo sportivo che in campo politico?
“La definirei in vari modi quella squadra, per l’Ungheria. Delizia, per il talento di una generazione di fenomeni irripetibile: Puskàa, Boszik, Czibor, Hidegkuti, i quattro principali assi, erano campioni irripetibili, tutti assieme. Evasione, perché era come l’ora d’aria per dei carcerati che potevano abbeverarsi al bello che di solito gli era negato da un regime grigio e ottuso. Orgoglio, perché il nome dell’Ungheria faceva il giro del mondo e anche nel Paesi del blocco occidentale era inevitabile ammirarla. Rivoluzione, per modulo e tattica di gioco, innovativi fino a risultare spesso incomprensibili per gli avversari: in questo senso una nuova visione sportiva di sicuro, e in questo senso anche una nuova visione politica, dato che il comunismo perdeva l’aria cattiva che aveva per molti altri aspetti fino a diventare affascinante, insomma quella squadra diventava oggettivamente un’arma di propaganda fortissima per l’intero mondo sovietico”.
Descriva con tre colori la squadra Aranycsapat…
“Rosso, verde e bianco. Un po’ perché sono quelli della bandiera ungherese. Un po’ per altri motivi. Il rosso era il colore delle maglie, ma è anche il colore della velocità, del dinamismo, e quella squadra era (ovviamente per gli standard atletici e calcistici dell’epoca) velocissima.
Non tanto i giocatori, Puskàs in particolare era lento anche per motivi di stazza, ma la palla. Era quella che schizzava velocissima, in campo. Il verde è appunto quello del prato, su cui risaltavano ancora di più, per contrasto, le maglie rosse ungheresi (il verde e il rosso sono colori complementari, quindi ognuno esalta l’altro). E il bianco è quello delle linee del campo, che gli ungheresi usavano come linea sulla quale danzare: le evoluzioni di Czibor in particolare sembrano davvero un ballo”.
Se fosse possibile tornare indietro nel tempo quale partite della Aranycsapat le piacerebbe narrare?
Su tutte ovviamente il 6-3 a Wembley, una partita che ha in qualche modo cambiato la storia, facendo entrare il calcio nella modernità: la prima partita vinta con la tattica oltre che con la tecnica, la prima partita che ebbe diffusione planetaria grazie alla nascente televisione oltre che alla radio e alla carta stampata, la partita che sgretolò antiche convinzioni sul calcio inglese che non avevano più ragione di esistere da anni ma che prima la guerra e poi la difficoltà di viaggiare avevano nascosto.
Vero che c’era già stato l’1-0 degli Stati Uniti ai Mondiali del 1950, ma era stato considerato un incidente di percorso, il Brasile era lontano, non c’erano immagini… Però ne aggiungo una seconda: il 3-2 della Germania Ovest nella finale del 1954, per capire dal vivo cosa andò storto, se fu solo una questione psicologica, o di campo inzuppato, o di doping. Credo tutto questo assieme, ma mi piacerebbe provare a viverla allo stadio una partita così.