‘Decimo Dan’ la nuova raccolta di Marco Plebani
Decimo Dan
di Marco Plebani
( Edizioni La Gru, 2022)
Chi è Marco Plebani
Marco Plebani è nato nel 1978 a Jesi, in provincia di Ancona. Ha vissuto a Montefano e Macerata, prima di approdare a Corridonia (Macerata), dove attualmente vive con la compagna e il figlio.
Insegnante alla scuola media Giovanni XXIII di Mogliano, in provincia di Macerata, si definisce un rockettaro sfegatato, canta in un complesso, coltiva l’hobby della fotografia, suona la chitarra ed è un appassionato di cinema.
Scrive poesie da quando era poco più che ventenne. Con la silloge Decimo Dan torna in libreria dopo la prima convincente prova, la raccolta Un giorno qualsiasi (2022), con la quale si è piazzato al secondo posto al premio AUPI (Albo Ufficiale Poeti Italiani).
Di cosa parla il libro
Decimo Dan è una silloge che raccoglie poesie scritte tra il 1999 e il 2021. Il titolo fa riferimento al massimo grado delle arti marziali. È una metafora del pensiero dell’autore sui componimenti in versi, ovvero l’espressione al massimo grado della consapevolezza che si può raggiungere con l’ispirazione e la scrittura.
L’idea di fondo, che fa da collante alle circa 200 poesie della silloge, come lui stesso dice, “è stata disporre, nel tempo, i componimenti in una sorta di concept come avviene con gli Lp musicali, che dipanano un tema in sezioni e lo risolvono con l’ultimo brano”.
Organizzate in tre parti – Antimeridiano, Pomeriggio-sera e Notte – le poesie sono scritte in versi dispari, per lo più endecasillabi e settenari, densi di figure semantiche ad effetto, con una predilezione per l’allitterazione. E anche nella metrica, Plebani si è sbizzarrito, passando dal sonetto, al madrigale, al verso libero, fino alla còbbola provenzale.
Cosa ne penso
Non è mai facile scrivere una recensione di una raccolta di poesie. Occorre leggere, rileggere e leggere ancora per provare quantomeno a entrare nel pensiero dell’autore, trovare la strada – il filo logico che lega un componimento all’altro – lasciarsi prendere per mano e percorrerla fiduciosi fino alla fine.
E così è stato per la silloge Decimo Dan, in cui, si legge nella presentazione, “l’autore dispensa ritmo e musica, insieme a una creatività espressa al di fuori dei canoni convenzionali e tramite una lingua tagliente, articolata in settenari ed endecasillabi che introducono a un mondo interiore ricco e pronto a spiazzare ogni lettore”.
La differenza, in questo caso, è che Plebani aiuta il viandante-lettore a seguire la sua strada disseminando tante piccole briciole, indizi che un occhio attento sa riconoscere e, subito dopo, ritrovare pochi passi più avanti. Lo fa con il componimento “Istruzioni per l’uso”, un avvertimento per il lettore che si avventura nel viaggio attraverso il suo io, perché di questo parla Decimo Dan:
“Leggimi, lettore, se questo vuoi:
fallo con voce
bassa,
lenta,
modulata,
medianica,
affrettata ove è necessario.
Che tu possa, lettore, aderire
a codesti dettagli inconoscibili;
impara, però, predisposto silenzio”.
Predisposto al silenzio e all’ascolto, come si fa con la musica, appunto, senza necessariamente sforzarsi di capire e di interpretare, ma lasciandosi andare al piacere della lettura. In fondo la poesia offre al lettore la libertà di scegliere il significato, di adattarlo a se stessi, pur percorrendo le tracce lasciate da un altro, di piegarlo al proprio stato d’animo.
Aiutati dalle sezioni macro-temtiche, si sente l’arco temporale di 20 anni, lungo il quale l’autore ha composto i suoi versi, la scelta meditata di quelli da mettere nella silloge, oppure da buttare: le “sillabe inutili” grattate via “come una specie di scultore che toglie affinché ci sia più linea ed incisività”, dice.
Tuttavia, se volessimo racchiudere la poesia di Plebani in un canone, perderemmo in partenza: se dal punto di vista stilistico, è chiaro il riferimento ai lirici greci e all’Ermetismo, in particolare Ungaretti e Quasimodo, il suo stile è anticonvenzionale, il ritmo a cui il lettore deve adeguarsi è incalzante, sicuro retaggio dell’anima rock di Plebani, reso tale dall’uso della metrica mista e da un registro linguistico che si adatta al ritmo e si trasforma in suono.
Come scrive Pier Marino Simonetti nella prefazione: “Questa silloge di versi dispari (per la maggior parte settenari ed endecasillabi da decifrare, talvolta, secondo forme e figure dei miti) scorre leggera, a tratti pacata, a tratti oscura, ma senza la necessità di ricorrere a manuali. Come tutte le sorprese l’interpretazione stava proprio lì, dietro un angolo. La brezza mossa dallo sfogliare delle pagine odora di fresco aliseo che spinge l’equilibrata velatura di questo libro verso porti di piacevole soggiorno. Bastano quattro o cinque versi per entrare dapprima intimoriti per uscirne poi soddisfatti, col gradito mistero di un racconto. Piccole ebbrezze d’incursioni corsare nel mito, grazie alle quali non si staziona nel genere, ma si gode della commedia umana. Con Decimo Dan ho trascorso la stessa scansione temporale del giorno vissuto da l’Ulisse di Joyce, ma senza quel dedalo di significati che disperde il lettore”.
Recensione a cura di Lina Senserini, docente e giornalista