Un saggio su Francis Scott Fitzgerald e l’Italia
Antonio Merola, classe 1994, è laureato in Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato il saggio F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Ladolfi, 2018). È cofondatore di YAWP: giornale di letterature e filosofie, per il quale ha curato inoltre la raccolta poetica L’urlo barbarico (A. V., Le Mezzelane, 2017) e ne gestisce la sezione Yawp Poesia.
Si occupa dei Quaderni Barbarici su Patria Letteratura, dedicati alle poesie inedite di giovani voci poetiche contemporanee e di Razzie Barbariche su Pioggia Obliqua: una rassegna dedicata alla poesia edita under 30.
Sue poesie inedite sono apparse su alcuni siti e riviste letterarie come A4, Nazione Indiana, Atelier (cartaceo e online), Pioggia Obliqua, Poetarum Silva, Il Foglio Letterario, Argo e Nuova.
Collabora o ha collaborato con Altri Animali, (Racconti Edizioni), Flanerì (per cui cura la rubrica L’isolamento del romantico americano), Lavoro Culturale, Carmilla e Culturificio. Suoi racconti inediti sono invece apparsi su Carmilla, Argo, Cultora, Frammenti Rivista, Il Pickwick e Reader For Blind.
Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo in precedenza per la raccolta di poetica L’urlo Barbarico
Ringraziamo Fausto Bailo e la Premiata Libreria Marconi di Bra (Cn) per la collaborazione.
Come è nata la sua collaborazione con la casa editrice Giuliano Ladolfi Editore?
“Tutto è cominciato con la pubblicazione di alcune poesie sul n.89 della rivista «Atelier»: era più o meno da circa un anno che avevo cominciato a far circolare qualcosina qui e là, quando Giovanna Cristina Vivinetto mi consigliò di provare a spedire una proposta decente alla redazione di «Atelier».
Per fortuna le ho dato retta, perché qualche giorno dopo mi scrisse Giuliano Ladolfi piuttosto entusiasta… non ero per niente abituato, il che mi sorprese. A questa prima e-mail, seguì una accesa telefonata. Parlammo di molte cose, poi Ladolfi mi consigliò di leggere un suo saggio: L’estetica nell’età globalizzata [scaricabile gratuitamente dal sito di Atelier Poesia]. Non c’era, in quella richiesta, nemmeno un briciolo di edonismo. C’era invece, in quel saggio, un punto di vista che chiedeva disperatamente alla letteratura di tornare a guardare all’umano.
Ci vollero un po’ di mesi prima che le poesie potessero effettivamente venire pubblicate. Con Chiara Bernini, alla quale fu affidato l’editing, avevamo pensato ad alcuni nomi per la nota che, di solito, introduceva la proposta degli inediti. Alla fine, fu però lei stessa a scrivere l’introduzione, perché i nomi a cui avevamo pensato non risposero o qualcosa del genere. Ci aveva tuttavia preso in pieno, su ciò che credevo volessi dire con quei testi. Ladolfi voleva che pubblicassi qualcosa con la sua casa editrice e a dire il vero, anche io volevo pubblicare qualcosa con lui, perché nel frattempo avevo letto alcune raccolte poetiche per Yawp che il marchio Ladolfi aveva pubblicato e mi piacevano non poco… c’era, in tutte, qualcosa di differente.
Cominciai allora a lavorare strenuamente a una raccolta di favole, che però non vide mai la luce. Fu allora che mi venne l’idea: dal momento che la critica italiana definiva Fitzgerald come poeta, anche se scriveva romanzi, perché non tentare la strada della saggistica? C’erano tutti gli ingredienti. L’editoria italiana aveva cominciato a ripubblicare massicciamente le opere di Fitzgerald, per qualche motivo, e inoltre il lavoro poneva una domanda che mi sembrava abbastanza provocatoria: può un romanzo essere considerato poesia?”
Quando è nata la bella idea di creare un saggio sul rapporto tra la critica italiana e Francis Scott Fitzgerald?
“Questa è una bella storia, fuori dalla storia. Tutto è cominciato da un conflitto con Francesco Muzzioli, il professore che avevo scelto come relatore per la mia tesi di triennale alla facoltà di Lettere Moderne. Ci conoscevamo già, non soltanto perché avevo dato degli esami con lui, ma anche perché Muzzioli aveva curato la prefazione della prima antologia poetica di «Yawp»: L’urlo barbarico, dedicata a otto poeti e poete che volevamo, in qualche modo, lanciare noi. L’argomento della tesi avrebbe dovuto dimostrare – se ciò era davvero possibile – che se si leggevano le opere di Fitzgerald in ordine cronologico, tutto allora ruotava intorno al rapporto reale con la moglie Zelda. Muzzioli non era d’accordo, tanto che disse, me lo ricordo ancora, che la mia generazione era in qualche modo attratta dal mito romantico di Fitzgerald, tutto qui.
Mi propose, allora, di dedicarmi a una ricostruzione della ricezione critica e di pubblico che il nostro paese ebbe nei confronti della sua scrittura. Si trattava di un compromesso, che però accettai solo a metà. Come è evidente, infatti, nel saggio tutta la ricostruzione critica serve solo come apparato per sostenere, ancora di più, l’idea di partenza. Muzzioli se ne accorse, certo… ma, tant’è, alla fine prese il lavoro per buono. Non so bene perché, magari lo aveva visto come una sfida all’autorità della docenza, che lui stesso metteva continuamente in discussione – almeno per come è vista a livello di massa. Il saggio però non è affatto uguale alla tesi, come è ovvio che sia: l’ho ripreso e ampliato, aumentando, se così si può dire, la direzione che mi ero prefisso sin dall’inizio. Ho cercato cioè di insistere su quella capacità lirica di Fitzgerald, evidenziata per primo da Nemi D’Agostino, e di usarla come una ulteriore dimostrazione della centralità di Zelda nella sua scrittura: non una poesia che si basi sulla forma, quanto invece dal dialogo paziente con l’altro, che per Fitzgerald è sempre coinciso con Zelda Sayre”.
Nel 1936 in Italia venne pubblicato dalla Mondadori il libro: Gatsby Il Magnifico (The Great Gatsby) senza riscuotere alcun successo editoriale. Nel dopoguerra venne riscoperto grazie a Cesare Pavese e Fernanda Pivano. Ci racconti come avvenne questo incontro.
“Anche questa è una storia fuori dalla storia. Fitzgerald era praticamente sconosciuto in Italia, non solo perché quella prima pubblicazione sotto il fascismo fu in tutto e per tutto un fiasco, ma per altri due motivi: il primo era dovuto al fatto che Vittorini lo aveva inserito nella grande antologia americana in una corrente minore, che aveva definito come «eccentrica», senza starci troppo a pensare e, per molto tempo, il giudizio del critico si impose come un vero e proprio ipse dixit; l’altra motivazione riguarda il destino e la fine di Fitzgerald in America.
Quando infatti nel 1940 viene preso da un infarto, lo scrittore lasciava al mondo il fantasma di se stesso e un romanzo incompiuto, Gli
ultimi fuochi. Negli ultimi anni della sua vita, si era trasferito a Hollywood, perché come romanziere non riusciva più a vendere niente, i suoi racconti brevi non li voleva più nessuno… e quindi, cercò di rimboccarsi le maniche nel tentativo, mai riuscito, di reinventarsi come sceneggiatore. A tal punto che Budd Schulberg, anche lui uno sceneggiatore, quando gli offrirono di lavorare con Fitzgerald se ne uscì dicendo: «Credevo fosse morto». È in questa cornice che si inseriscono Cesare Pavese e Fernanda Pivano. Durante la guerra, infatti, i soldati americani avevano portato con loro alcune piccole edizioni tascabili. In un negozietto di via Po a Torino, alla fine del conflitto, Pavese e Pivano presero a sbirciare in un cumulo di libri lasciati là dagli Alleati… tra questi, trovarono il Portable Fitzgerald, che conteneva The Great Gatsby, Tender is the Night e i Nines Tales.
Ora, Pavese non era mai stato pienamente d’accordo con le teorie espresse da Vittorini nell’Americana. Quelle opere di Fitzgerald, furono per lui una specie di punto di partenza da cui ricominciare: la traduzione di Tenera è la notte (Einaudi, 1949) venne affidata a Pivano. Pavese non se la sentì dal momento che «Non ho voluto tradurre io i libri di questo scrittore […] perché mi piacevano troppo». E pensare che, al culmine della sua discesa, Fitzgerald aveva chiesto con una evidente disperazione al suo editore di fare una edizione tascabile di Il Grande Gatsby, perché sentiva che quel libro aveva ancora qualcosa da dire”.
Quanto tempo è stato necessario per la realizzazione del suo saggio?
“A raccogliere il materiale, non c’è voluto molto. Perlopiù, oltre a ciò che era andata scrivendo Fernanda Pivano che si esprimeva, per una scelta personale, direttamente nelle introduzioni ai romanzi, quasi tutta la critica italiana del Novecento intorno a Fitzgerald si è svolta sulla «Fiera Letteraria» che in questa storia ha un grande merito. E, fortunatamente, molti articoli sono reperibili dal fondo on line della Biblioteca Gino Bianco. Il saggio ha, in realtà, una forte componente di inventiva. Non perché non si basa su dei dati, ma perché su Fitzgerald, allora, non si era mai scritto molto.
E anche perché, come dicevo, la critica italiana mi serviva come spunto di partenza per esprimere altro. È una componente, questa dell’inventiva, che ha sottolineato meglio di tutti Iuri Lombardi in un articolo su Carmilla. La riscoperta di Fitzgerald è in atto da almeno un decennio e negli ultimi anni più o meno tutti sono tornati a ripubblicare (o a proporre per la prima volta) suoi scritti. Questo saggio si ferma un attimo prima, non per una astuzia, ma per cercare una volta per tutte di fare il punto della situazione e, assieme, di proporre una nuova direzione critica”.
Se dovesse riassumere il suo saggio in un particolare genere musicale quale sarebbe?
“Vuoi farmi un tranello? Certo, uno a prima botta risponderebbe il Jazz. Ma l’idea di Fitzgerald come il principe felice dell’Età del Jazz è una grande bugia, forse la più grande mai scritta su di lui”.
Progetti per il futuro?
“Ho mantenuto una parte della promessa che feci qualche mese fa. Allora ho acceso la luce [raccolta di poesie] è attualmente in cerca di un editore. Per i racconti, invece, non so ancora che cosa succederà. E poi c’è «Yawp»… cara, carissima Yawp”.