Graphic novel: ‘L’importanza di chiamarsi Oscar Wilde’
L’importanza di chiamarsi Oscar Wilde
Illustrazioni di Licia Cascione – sceneggiatura di Tommaso Vitiello
(2024, BeccoGiallo)
Sono trascorsi pochi mesi da quando è uscita L’importanza di chiamarsi Oscar Wilde, una biografia sotto forma di graphic novel dedicata ad uno dei più noti e discussi drammaturghi, poeti, scrittori, aforisti, giornalisti di fine Ottocento.
Una produzione artistica spesso legata alla vita privata che l’ha portato a essere considerato il dandy per antonomasia, celebre per la sua dissolutezza e la dedizione estrema al bello e costantemente oggetto di gossip nella Londra vittoriana.
In questa biografia rivivono le passioni dell’autore di capolavori come Il Ritratto di Dorian Gray e L’importanza di chiamarsi Ernesto, mostrate tramite le varie anime di Oscar Wilde e gli altrettanti amori cruciali, nel bene e nel male, per il suo destino.
Con grande piacere abbiamo intervistato lo sceneggiatore Tommaso Vitiello. Prima però, conosciamolo meglio…
Tommaso Vitiello, laureato in geologia, esordisce nel campo dei fumetti con La casa delle meraviglie, storia finalista al Lucca Project Contest del 2008. L’anno seguente inizia a studiare seriamente sceneggiatura e i suoi sforzi vengono ricompensati con il Premio Giancarlo Siani per il graphic journalism.
Pubblica all’estero dei racconti per bambini per poi spostarsi nel campo videoludico dove scrive trame e dialoghi per alcuni giochi indie. Nel 2017 entra a far parte del gruppo Artsteady e come Editor per numerose case editrici grandi e piccole.
Nel frattempo, non cala la passione per il mondo del fumetto arrivando a pubblicare con numerose case editrici italiane: da Panini Comics a BeccoGiallo, passando per Noise Press e Hazard.
Insegna Sceneggiatura e Scrittura creativa. Nel 2019 vince il Premio Boscarato per il Webcomic I Gallagher. Studia il fumetto, la sua storia e cerca di capire dove andremo a finire (sempre fumettisticamente parlando).
Tommaso, quali sono stati i suoi primi passi nel mondo dei comics?
Oddio.
Chiamarli passi mi sembra un’esagerazione. Diciamo gattonamenti, strisciamenti e a volte strUsciamenti. Per anni ho soltanto ruotato intorno al mondo dei fumetti. Più per indecisione mia, che per volontà del mondo del fumetto di tenermi lontano, mondo che mi conosceva solo come fruitore. Tutto inizia quando avevo quattro anni (in un range temporale non specificato che va dal paleozoico alla rivoluzione industriale) e mio padre mi leggeva le storie da “Topolino” prima di farmi addormentare. Da sempre considero quelli i miei primi passi nel mondo del fumetto, quasi come se fosse stato un imprinting animalesco.
Quell’imprinting che mi ha portato poi a scrivere la mia prima storia a fumetti: avevo sette anni ed ero in seconda elementare. Conservo ancora con cura quelle 12 pagine a fumetti, con vignette quadrate e personaggi estremamente stilizzati (perché dire disegnati male al giorno d’oggi pare brutto).
Un’avventura iniziata 65 milioni di anni fa era un misto tra Jurassic Park e le avventure di Topolino con Zapotec e la macchina del tempo. Poi sono passato attraverso Il Giornalino e le storie de Le tartarughe ninja che mi hanno tenuto compagnia mentre da ragazzino ero in ospedale, Dragon Ball che è stato il primo fumetto che mi sia mai comprato consapevolmente, gli Xmen e poi l’università di geologia, che qualsiasi esperto di fumetti sa che, come unico sbocco, ha quello del mondo dei comics.
Ed è proprio tra un esame di mineralogia e uno di matematica che partecipo al Lucca Project Contest con la prima storia che abbia mai sceneggiato: La casa delle meraviglie. Ero inesperto e adesso, rileggendola, mi rendo conto di quanto fosse infantile e superficiale. Però arrivammo in finale e quella cosa mi fece pensare che, forse, un pochino sapevo scrivere. Quello è stato l’evento che ha dato il La alle mie velleità da scrittore. Non solo fumetti, ovviamente, anche se la nona arte rimane il mio medium principale: zine, autoproduzioni e piccole case editrici hanno dato i natali alle mie prime storie, però il tutto si è aperto nel 2018 quando la Panini Comics ha pubblicato Djungle.
Quali studi sono stati necessari per diventare sceneggiatore?
Iniziamo da un assunto specifico.
Non si diventa scrittore di fumetti perché non si sa disegnare. È una frase che sento dire troppo spesso da aspiranti sceneggiatori ed è una cosa che mi fa innervosire perché è come dire che Disegnare è difficile, scrivere è facile. Cosa che ovviamente non è vero, ed è per questo che nell’ultimo periodo storico abbiamo poca roba di qualità: perché si presuppone che basti tenere in mano una penna per poter raccontare storie.
Come ho detto, sono un geologo e non ho mai fatto studi universitari collegati alla letteratura, ma quelli credo che possano essere molto utili. Però poi ho seguito due anni di corso di sceneggiatura per fumetti alla scuola Italiana di Comix, che da un lato sono stati molto interessanti, ma dall’altro… Diciamo che con il tempo ho capito che i corsi di scrittura possono solo dare un’infarinatura, ma se la curiosità non viene dalla persona stessa allora è tutto inutile. E lo dico nonostante io sia un insegnante di sceneggiatura e scrittura creativa.
Quello che dico sempre all’inizio dei miei corsi è che io posso insegnare i trucchi, ma se la voglia di raccontare storie non viene dal profondo allora sarà tutto inutile. Per diventare scrittore (non solo sceneggiatore) l’importante è la curiosità: solo leggere non basta, ma bisogna analizzare le storie, quelle che ci piacciono, ma soprattutto quello che non ci piacciono, per poter capire cosa funziona e cosa no.
Quanto è entrato nel progetto che si è concretizzato con la graphic novel L’importanza di chiamarsi Oscar Wilde?
Boh.
Ti confesso che realmente non mi ricordo. È stato un processo così complesso che non riesco a dare una data di nascita reale al tutto. Sicuramente mi ricordo di aver inviato la prima versione della sinossi (che fu completamente cassata) nel 2021. Ovviamente con i ragazzi di BeccoGiallo ho uno splendido rapporto e quindi è stata tutta una costruzione fluida, dove io proponevo idee e loro mi davano suggerimenti su quello che secondo loro non funzionava. Poi quando tutti ci siamo convinti che quello che avevo scritto funzionava abbiamo coinvolto Licia.
Quanto è stato complesso realizzare una sceneggiatura sulla vita di Oscar Wilde?
Molto.
Sì, ok, cerco di essere più chiaro. Molto complesso perché nelle prime stesure che avevo scritto della storia non riuscivo a trovare un punto centrale su cui ancorare la narrazione. È uno dei problemi principali quando si scrive una biografia. Le storie devono essere coese, la vita vera non lo è mai. E quindi per semplicità e per renderla interessante si cerca qualcosa che possa fare da filo conduttore. Ma su Oscar Wilde era stato già detto tutto.
Non è stato facile finché (ormai in crisi) non mi consigliarono di leggere una biografia scritta da un suo contemporaneo: Vita rispettabile e dissoluta di Oscar Wilde di Hesket Pearson: un punto di vista, quindi, non ripulito dal tempo e che ritraeva l’uomo reale. È lì che ho scoperto il problema di Wilde con la critica o il fatto che gli americani lo temessero.
Io volevo raccontare l’amore, è vero, ma di più l’uomo dietro gli aforismi, l’uomo dietro il processo. Cosa pensava Oscar Wilde quando era da solo? Come vedeva se stesso rispetto al mondo? Tendiamo a dimenticare che è un uomo che ha mantenuto un segreto per un lunghissimo tempo della sua vita. Anzi: tendiamo a dimenticare che era un uomo in vista con un segreto, cosa che rendeva ancora più difficile.
Come è nato il suo rapporto lavorativo con l’illustratrice Licia Cascione?
Siamo nel 2025 e molto spesso capita che tra sceneggiatore e disegnatore ci sia solo un rapporto digitale. Con Licia non è stato diverso, anche se mi sono innamorato a prima vista delle sue tavole. Abbiamo lavorato per tutto il periodo di Oscar Wilde tramite mail e chiamate su Teams. Ed effettivamente mi rendo conto che è una cosa divertente.
Già dieci anni fa questa cosa era impensabile e si tendeva a lavorare con gli amichetti del circondario. La mia fortuna di lavorare con Licia è che non è una mera esecutrice delle mie idee, ma ha sempre sentito fin dall’inizio il progetto come suo e quindi lanciava continuamente suggerimenti che io puntualmente accettavo. È un genio. Non posso dire altrimenti.
Sogni nel cassetto?
Sono una persona che non ama parlare dei sogni, perché raccontarli è un po’ come svegliarsi. Meglio che rimangano nel cassetto dove ogni tanto posso spiarli e piano piano portarli sulla scrivania.
Intervista realizzata da Fausto Bailo, promotore culturale