Rais, il nuovo libro di Simone Perrotti
Questa volta Bailo Fausto, sempre in collaborazione con la Premiata Libreria Marconi di Bra (Cn) ha intervistato per noi Simone Perrotti, noto autore uscito da poco in libreria con Rais (Frassinelli)
Simone Perotti, nasce a Frascati da una famiglia di origine ligure, artista poliedrico, scrittore con la passione per la barca.
Il suo primo libro viene dato alle stampa nel 1995 dal titolo: Zenzero e nuvole – Manuale di nomadismo letterario e gastronomico, una raccolta di racconti avventurosi e fantastici abbinati ad altrettante ricette gastronomiche. Edito dalla Theoria, ristampato dalla Bompiani nel 2004.
Nel 2005 esce il libro Stojan Decu, l’atro uomo, con cui vince il “Premio di Volpe” nel 2005, edito dalla Bompiani. Negli anni a seguire verranno alla luce altre interessanti pubblicazioni. Collaboratore per quanto riguarda i temi di attualità e su viaggi, turismo e nautica con il Corriere della Sera e Il Fatto Quotidiano.
Ideatore e cofondatore di Progetto Mediterranea, una spedizione nautica, culturale e scientifica della durata di cinque anni. (2014 – 2019)
Nel 2016 esce il suo ultimo libro dal titolo: Rais, ambientato nell’epoca delle grandi scoperte marittime,edito dalla Frassinelli.
Per maggiori informazioni, questo il sito dell’autore.
Quando è nata in lei la passione per la scrittura?
“Da bambino. A nove anni stavo seduto ore su una Olivetti Lettera 35 di mia sorella. Non credo di essermi mai chiesto neppure il perché. In quegli anni scrissi tre romanzi gialli, in cui clonavo letteralmente Ellery Queen, che vedevo in televisione. Peccato che mio padre li abbia buttati durante un trasloco, sarebbe stato divertente leggerli oggi. Credo fossero orribili. Ad ogni modo, ho sempre scritto. Qualche anno più tardi ricordo invece di aver preso coscienza dell’atto della scrittura.
Composi un breve racconto, di due o tre cartelle, in cui il protagonista si metteva alla scrivania e cercava di scrivere un racconto, se non ricordo male, senza poi riuscirci. Si intitolava “Archiviazione”, appunto. Era il daimon della scrittura che tentava di emergere. Ma era il mio primo racconto, avrò avuto all’incirca tredici anni. Ne ero entusiasta. Me lo portavo piegato nel giubbotto dovunque andassi, neanche fosse la patente di corsa di un corsaro”.
Quali sono stati i suoi scrittori di riferimento?
“I più grandi. Ho sempre invidiato i miei colleghi che a questa domanda rispondono con autori minori, sconosciuti ai più. Fa molto chic. Io invece leggevo i più noti e arcinoti: da Jules Verne a Nietzsche (i primi due libri furono “Caccia al meteorite” e “Così parlò Zarathustra”, diciamo un salto un po’ forte tra primo e secondo romanzo, ma così andò…), poi rapidamente Hermann Hesse, Cesare Pavese, Gibran, Fenoglio, Calvino.
Ricordo l’impatto duro su Sartre come una scossa. Ma l’autore che cambiò per sempre la mia relazione con la scrittura venne molto dopo. Si chiamava Gabriel Garcia Marquez, “Cent’anni di solitudine”. Dopo averlo iniziato invano quattro volte lo finii in due o tre giorni. Lo chiusi e dissi a voce alta: “Ah, ma è così che si scrive allora!”. Ho amato molto gli anglo-americani, nel frattempo, da Stevenson a Conrad a Melville, a Kipling a Poe, a Defoe, e poi Swift, Dickens, Hemingway, e soprattutto Jack London, che reputo il capostipite di una certa umanità letteraria”.
Quale è stata la scintilla che l’ha portata a scrivere Rais?
“Mi sono imbattuto, con Dragut Rais, il pirata protagonista della storia, in un personaggio più romanzesco di Edmond Dantès, più affascinante di Billy Bones e Long John Silver messi insieme, più tragico di qualunque altro mai incontrato prima. Solo che Dragut è esistito davvero.
Soprattutto, era un personaggio proto-anarchico, uno spirito libero e indomabile, ossessionato dalla navigazione e dalla pirateria. Ho immediatamente immaginato la sua ossessione, e ne ho compreso il prezzo altissimo. Ogni ossessione lascia morti e feriti sul campo della propria anima. Era impossibile non avvinghiarmi a quel nome, studiarlo, cercare, scandagliare ogni informazione su di lui”.
Quanto è stato importante la documentazione storica per il suo ultimo libro?
“Molto. La materia è del tutto attuale: il destino, le scelte, la relazione con se stessi e con il mondo, la schiavitù, la libertà, il potere. Ma la cornice in cui tutto è inserito è il XVI secolo, un’epoca affascinante ma anche complicata e ricchissima.
Bisognava inoltre studiare molto accuratamente la vita di quella splendida stirpe di marinai, navigatori avventurieri, una folla immensa che andava dal piccolo pirata locale a Cristoforo Colombo, dal Baltico al Mar Nero, dal Mar di Levante a Gibilterra, e poi oltre. Per scrivere Rais ho dovuto studiare cosa mangiassero, come si vestissero, come fossero realizzate le galere e i galeoni, quali scoperte rivoluzionarono quel mondo e quello a venire. Un oceano. È stata un’impresa, ma anche un’avventura meravigliosa”.
Quale opera artistica racchiude la sintesi del suo ultimo romanzo?
“Non capisco esattamente cosa voglia dire. Se si riferisce al significato poetico, credo che vi sia un’immensa ispirazione nel mare, e segnatamente nel Mediterraneo, e sono convinto che andare alla ricerca di questa ispirazione sia straordinario, meraviglioso, ricco di suggestioni e profondi insegnamenti.
Penso che sia un mondo ancora inesplorato che solo l’arte ci può aiutare a conoscere. Ho cercato di costruire una storia così, ricca e avvincente, ma anche profondissima, che immerge chiglia, da ancora nei recessi più imperscrutabili del destino umano, diviso, da sempre, tra appartenenza e liberazione.
L’arte deve servire a conoscere angoli del nostro mondo, esteriore ed interiore, perché nel confronto sorgano le buone domande che ognuno di noi anela a farsi. O che teme ed evita in tutti i modi. Ma l’arte deve scorticare la pelle, almeno una buona parte dell’arte, deve essere dura e profonda, deve colpire con delicatezza o con cattiveria ma sempre nei punti vitali, perché è lì che diventa intensa e utile, fa sobbalzare, non si accontenta mai di intrattenere”.