Intervista al giornalista Marco Pastonesi
Marco Pastonesi, nasce a Genova, giornalista, ex giocatore di rugby di serie A e B, ha lavorato per la “Gazzetta dello Sport”, seguendo quindici Giri D’Italia, dieci Tour de France e un’Olimpiade, oltre a quattro Giri del Ruanda e uno del Burkina Faso.
Autore di numerosi volumi dedicati al mondo dello sport in particolare del ciclismo, tra i quali citiamo: Angeli di Coppi edito nel 1999, Diavoli di Bartali edito nel 2016, Corsa più pazza del mondo, dove si narrano le avventure esilaranti del ciclismo africano edito nel 2010. Sino ad arrivare al rugby, con una serie di interessanti volumi, tra i quali citiamo: Il terzo tempo edito nel 1997, Il popolo del rugby edito nel 2004.
Con grande piacere vi presentiamo il suo ultimo libro: L’uragano nero edito dalla 66thand2nd
Un ringraziamento speciale a Fausto Bailo che l’ha intervistato per noi e alla Premiata Libreria Marconi di Bra (Cn) che, come sempre, ha collaborato fattivamente.
Quando è nata in lei la passione per la scrittura?
“Da bambino sognavo di diventare un giornalista de “La Gazzetta dello Sport”. Oppure un benzinaio. A destinarmi verso la scrittura, anziché verso gli idrocarburi, è stato l’esempio di mia madre, fervente lettrice, e della professoressa Villetti, che in prima e in seconda media ci costringeva alle “Cronache”, a metà fra diari e articoli. Poi una serie di favorevoli circostanze e di tenaci sentimenti. Finché, dopo la laurea in Giurisprudenza, ringraziai mio padre per avermi sponsorizzato negli anni degli studi e continuai a fare gavetta nel giornalismo”.
Quando ha sentito parlare per la prima volta di Jonah Lomu?
“Nel 1995: terza edizione della Coppa del mondo di rugby. La folgorazione guardando la semifinale Inghilterra-Nuova Zelanda, con quella azione della prima meta (delle quattro), cui ho dedicato il primo capitolo del libro. Un’azione che ha spaccato il mondo del rugby, fra il prima di Lomu e il dopo Lomu, fra il dilettantismo e il professionismo, anche fra il rugby tecnico delle finte, dei trucchi, degli incroci e il rugby delle sportellate”.
Quale è stata la scintilla che l’ha portata a scrivere: L’uragano nero. Jonah Lomu, vita morte e mete di un All Black?
“La morte di Lomu: una morte annunciata, eppure imprevista, sorprendente, accecante. E poi: la sua vita da film, fatta di inferni e paradisi, gli All Blacks, soprattutto il rugby, che è un mondo a parte, e che può contemplare Lomu perché ci sono tutti quelli che Lomu se lo sognano. Dai minirugbisti agli old, dai carcerati ai disagiati mentali, e che accanto alle imprese di Lomu coltiva infinite e meravigliose leggende, storie, racconti ovali”.
Cosa l’ha colpita di più della epica vita di questo uomo?
“La semplicità e l’ingenuità, oltre alla forza e alla potenza. La sensibilità verso i più piccoli, ma anche verso i feriti, gli offesi, i malati. E la fermezza nel tentare di ritornare l’atleta straordinario – mai si era visto uno così grande, grosso e veloce – che ha cambiato il gioco di uno sport”.
Quale partita potrebbe riassumere meglio, la breve ma intensa vita di questo giovane Èracle, scomparso troppo presto?
“Quell’Inghilterra-Nuova Zelanda. Però, forse, più che una partita, adesso mi concentrerei su un pre-partita: quando ogni giocatore è solo con se stesso, nudo mentre guarda la maglia e poi se la infila, indossando non solo un simbolo ma anche il peso di una squadra, di una comunità, di un Paese. Pensieri, ricordi, emozioni. Responsabilità, pressione, paura”.
Quale sportivo secondo lei può essere paragonato a Jonah Lomu?
“In “L’Uragano nero” si paragona Lomu a Fausto Coppi: tutti e due strappati da questo mondo a quarant’anni, ma tutti e due regalati alla storia eternamente giovani”.