“Se questo è un uomo” dalla parola all’immagine
1938: anno nefasto delle leggi razziali. Era il 14 luglio quando fu pubblicato il tristemente famoso “Manifesto del razzismo italiano”, poi trasformato in decreto il 15 novembre dello stesso anno, con tanto di firma di Vittorio Emanuele III di Savoia.
Il 27 gennaio di 74 anni fa, invece, i soldati della 60ª Armata del “1º Fronte ucraino” del maresciallo Ivan Konev varcarono la porta dell’inferno entrando nel campo di concentramento di Auschwitz e per la prima volta il mondo “scopri” l’orrore del genocidio nazifascista.
Il mensile Illustrati numero 54 ricorda la giornata della memoria, celebrata appunto il 27 gennaio di ogni anno per commemorare le vittime dell’olocausto, con il libro Se questo è un uomo, scritto da Primo Levi.
Tra i vari illustratori che hanno realizzato questo numero quattro donne: Anna Paolini, Mariella Cusumano, Irene Cavalchini e Anna Mancini le cui interviste abbiamo già cominciato a pubblicare nei giorni scorsi.
Le ringraziamo per avercele concesse in esclusiva, ricordando che sono state possibili grazie alla collaborazione di Fausto Bailo e della Premiata Libreria Marconi di Bra (Cn).
Intervista ad Irene Cavalchini
Quando è nata in lei la passione per l’illustrazione?
“Da quel che ricordo ho sempre amato disegnare. Uno dei primi progetti (se così vogliam chiamarlo) è stato a 5 anni, quando ho visto La Storia Infinita per la prima volta: mia madre ha conservato questi fogli pinzati a lato dove lei aveva scritto la storia e io avevo disegnato le scene del film.
Alle elementari facevo storie con protagonista un riccio di nome Babau che viveva avventure con i suoi amichetti del bosco. Disegnare è sempre stato un modo per comunicare, esorcizzare e rapportarmi con la realtà.
Nell’adolescenza mi sono appassionata ai fumetti e all’animazione giapponese; con Neon Genesis Evangelion e Berserk ho capito che anche io volevo comunicare in quel modo col mondo. Facevo pensieri come queste immagini mi arrivano così tanto eppure sono fatte da qualcuno che nemmeno sa che esisto, quindi ci dev’essere un linguaggio universale, una sorta di traduzione delle esperienze reali in metafore visive, colori e io vorrei farne parte, imparare a farlo bene perchè mi fa star bene come fruitrice e come realizzatrice.”
Quali sono stati i suoi illustratori di riferimento?
“Il primo amore è stato Dave McKean, poi Arthur Rackham, Beatriz Martìn Vidal, Nicolas de Crécy, Enki Bilal, Katsuya Terada… quell’immaginario un po’ crepuscolare, onirico e più pittorico che grafico“.
Come è avvenuto il suo incontro con il mensile Illustrati di Logosedizioni?
“L’anno scorso avevo mandato alla Logosedizioni il mio portfolio, mi hanno gentilmente risposto che non necessitavano di illustratori ma che potevo partecipare alle selezioni tematiche per la rivista Illustrati. Mi ha fatto molto piacere perché è una rivista che conoscevo e che mi piaceva molto. Ad oggi sono stata selezionata quattro volte per tre numeri”.
Come è nata l’illustrazione che è stata pubblicata sul mensile?
“Solitamente già leggendo il testo o l’atmosfera del soggetto penso a quale approccio avere, quindi matite o acrilici, bianco e nero o colori, linee decise e violente o più tenere… in questo caso, come spesso mi accade, parto da un collage e ci ricamo su il resto.
A casa ho ritagli di immagini potenzialmente utili e riviste accatastate che compro solo per le foto. La base di questa illustrazione era un servizio fotografico metropolitano di un Vogue (credo, o comunque di una rivista di moda) di quattro o cinque anni fa. Ho unito ed equilibrato i ritagli nell’immagine e coperto il tutto, tenendo solo la dinamica delle figure iniziali.
Diciamo che quando lavoro sul collage inizio sfogliando riviste o ritagli, ad un certo punto ce n’è uno che si incastra con l’immagine che ho in mente, a questa si incastra un altro pezzo e poi copro. Mi piace molto disegnare volti e persone, mi capita di soffermarmi a studiare le espressioni della gente mentre parla, quindi volevo concentrarmi sull’espressività di volti e corpi. Questa illustrazione rappresenta l’inizio di quello che succede in una camera a gas, partendo dal primo che ha negli occhi solo stanchezza e dolore, all’ultimo che sta iniziando a svanire. Volevo che ci fossero dolore, inevitabilità e impotenza”.
Quale tecnica grafica ha utilizzato per le realizzazione della sua tavola?
“É una tecnica mista di collage, pastelli a olio e acrilici. Mi piace usare più materiali per creare un’immagine”.
Quanto è stato umanamente difficile creare la sua tavola?
“Abbastanza. Premetto che, pur lavorando nel mondo artistico con bambini e ragazzi, personalmente, per quello che creo per me e non su commissione, abbraccio molto di più tematiche un po’ cupe, quindi il tema di per sé era una sfida che mi affascinava.
“Non si trattava di una favola o di un racconto inventato, ma di un’esperienza vissuta in prima persona in un periodo storico aberrante. Tra le righe del libro trasuda questo declassamento dell’essere umano, questo catapultarsi in un girone infernale senza nessuna colpa e la percezione di questo seme, sottovalutato e impazzito, che cresce e diventa un albero nutrito di morte e odio.
L’umanità e il dolore che ci sono in quel libro sono pervarsi da uno straziante senso di impotenza. Mentre procedevo con il lavoro pensavo a questi quattro personaggi e a quanto peso portavano i loro corpi scheletrici. A quanto si può arrivare a fare a una persona, in cosa si può trasformare un essere umano e al fatto che si fosse creata questa escalation tollerata di odio, violenza e paura. É inquietante pensare a come sia potuto accadere“.