Claudio Coletta ci parla del suo ultimo libro
Claudio Coletta, nasce a Roma e nella vita professa la nobile arte del medico, con specializzazione in cardiologia e numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali.
Nel 2011 decide di intraprendere una nuova straordinaria avventura nel campo della letteratura esordendo con il suo primo romanzo dal titolo Viale del Policlinico partecipando al Premio Azzeccagarbugli 2011 e vincendo subito il premio “Raffaele Crovi” per la migliore opera prima. Nel 2014 esce Amstel Blues.
Da poche settimane è uscita la sua ultima fatica dal titolo Il manoscritto di Dante.
Tutti i suoi libri sono editi dalla Sellerio Editore.
Un ringraziamento a Fausto Bailo che l’ha intervistato per noi e alla Premiata Libreria Marconi di Bra (Cn) che, come sempre, ha collaborato fattivamente.
Quando è nata in lei la passione per la scrittura?
“Credo di averla sempre avuta, e la sfogavo nelle lunghissime lettere che scrivevo a mia moglie ogni volta che ne avevo l’occasione (quando ancora era possibile farlo), ma anche nell’attività di ricerca clinica in ambito cardiologico che ho portato avanti per una ventina d’anni, con la pubblicazione di numerosi lavori e commenti editoriali, sia in italiano sia in inglese.
Curiosamente, le lingue hanno avuto una valenza simile nel “saziare” questa mia propensione, e un commento riuscito, o una discussione ben articolata in inglese, riusciva a darmi particolare soddisfazione. Se invece la domanda fosse “com’è nata questa passione?”, risponderei che tutto ha avuto inizio dalla lettura. Come la stragrande maggioranza degli scrittori, sono sempre stato un insaziabile lettore, fin dalla prima infanzia, e di questo ringrazio i miei genitori”.
Quali scrittori l’hanno maggiormente influenzata?
“Un’infinità, temo. Ho letto Carlo Lorenzini (Collodi) all’età di sette anni, con stupore, e ho scoperto Faulkner la scorsa estate, di nuovo con stupore. Fra questi due immensi autori, corre una sterminata schiera di scrittori con i quali ho dovuto fare i conti e imparare a prendere le misure, giorno dopo giorno, libro dopo libro, storia dopo storia. Non saprei dire quale possa essere stato il contributo formativo di Verne, oppure quello di Melville, e quale dei due abbia inciso più dell’altro su di me. Credo che ogni autore incontrato mi abbia inciso una traccia dentro, qualcosa destinato a non scomparire mai, neppure per i libri in apparenza dimenticati”.
Come è nato il personaggio di Domenicucci, ispettore dell’Europol?
“Nario Domenicucci compariva nel mio primo romanzo, “Viale del Policlinico”. Era il giovane poliziotto che il commissario Diotallevi affiancava al protagonista Lorenzo Baroldi per proteggerlo e in qualche modo sorvegliarlo durante le pericolose indagini nell’ambiente universitario. Il ragazzo aveva delle doti, nonostante l’umile origine e la scarsa cultura, e seppe dimostrarle, in quella occasione.
Nel successivo romanzo “Amstel Blues”, ambientato ad Amsterdam, Domenicucci compare nella seconda parte della storia, questa volta come ispettore capo in forza all’Europol, e da buon “deus ex machina” risolve la brutta situazione in cui si è cacciato il giovane protagonista del romanzo, Sandrino Lucchesi, scrittore di successo in crisi creativa. Ne Il Manoscritto di Dante, finalmente, Nario conquista con merito il ruolo di protagonista. Insieme con il collega Pujol, commissario della Brigade Criminelle, si trova coinvolto nell’indagine sull’omicidio di una ricca borghese, avvenuto nel quartiere del Marais, a Parigi.
Mi ero proposto di scrivere un giallo d’impostazione classica, alla Simenon, ma che presentasse elementi di forte originalità, e dove alla scrittura di Dante Alighieri fosse riservato un ruolo da protagonista, in un intreccio che lascio al lettore il piacere di scoprire, naturalmente”.
Domenicucci si inspira ad altri commissari della letteratura europea?
“Nario è un uomo mite, un poliziotto all’antica, abituato a consumare le suole delle scarpe in infiniti pedinamenti e appostamenti. Uno di quelli ai quali generalmente, nei romanzi di genere poliziesco, si riserva un ruolo da comprimari, e che si limitano a ricevere ordini dal commissario di turno, come se non avessero la testa per pensare. Lui non è solo un bravo poliziotto, è anche un buon padre di famiglia, innamorato di sua moglie Annelise e dell’unico figlio, un tenero ragazzo down che assorbe tutto l’affetto e la protezione che il duro mestiere scelto consente a suo padre”.
Quale personaggio della Divina Commedia assomiglia maggiormente all’ispettore Domenicucci?
“Domanda complicata e interessante. A pensarci bene, e con le debite distinzioni, sarei tentato di paragonarlo a Ulisse, e spiego il perché. Nario non è un re, come l’eroe omerico, ma un uomo del popolo. Proprio per questo, credo, insegue con tenacia tutto quanto abbia a che fare con “virtute e conoscenza”, consapevole dei suoi limiti ma desideroso, ogni singolo istante della sua vita, di superarli. E’ un uomo di brillante intelligenza, e utilizza il dono ricevuto dal cielo per migliorarsi, giorno dopo giorno, con feroce determinazione. Un altro aspetto fondamentale, del suo carattere, è il rigoroso senso etico presente in ogni sua azione, un po’ in controtendenza con i personaggi attuali della letteratura poliziesca, nazionale e internazionale”.
Con quale scrittore contemporaneo le piacerebbe scrivere un libro a quattro mani?
“So che resterà deluso dalla mia risposta, ma devo essere sincero: il mestiere (o l’arte?) di scrivere è qualcosa che richiede solitudine. So bene che in letteratura esistono esempi che smentiscono questo assioma, basta pensare ai grandi Fruttero e Lucentini, ma ritengo che si tratti della classica eccezione che conferma la regola”.