“La vera storia di Martia Basile”: ce ne parla l’autore Maurizio Ponticello
(Foto di copertina di Stefania Furbatto)
La vera storia di Martia Basile
di Maurizio Ponticello
(Mondadori, 2020)
Maurizio Ponticello è giornalista, saggista e scrittore. Con questo romanzo, il suo primo di genere storico, si è aggiudicato da pochi giorni il Premio Agar Sorbatti (tra le prime donne in Italia a laurearsi in ingegneria) al Premio Letterario Amalago.
E’ stato corrispondente di testate radiofoniche e televisive, redattore di vari quotidiani e cronista de Il Mattino.
È autore di diversi libri, tra i quali: La nona ora (Bietti, 2013) e I Pilastri dell’anno. Il significato occulto del Calendario (Edizioni Mediterranee, 2013).
Per la Newton Compton ha pubblicato: Misteri, segreti e storie insolite di Napoli (con Agnese Palumbo, 2012), Forse non tutti sanno che a Napoli… (2015), Un giorno a Napoli con san Gennaro. Misteri, segreti, storie insolite e tesori (2016) – dal quale è stato tratto un documentario – e Napoli velata e sconosciuta (2018).
Ha avuto vari riconoscimenti tra cui il Premio Domenico Rea. È presidente della storica associazione di giallisti Napolinoir.
Sullo sfondo di una Napoli capitale del viceregno spagnolo, a cavallo fra il 1500 e il 1600, si snoda La vera storia di Martia Basile una vicenda crudele e ancora drammaticamente attuale per alcuni suoi aspetti.
Ispirato ad una storia vera, narra di una bambina che a soli 12 anni, viene venduta dal padre per andare in sposa a un commerciante che traffica con la corte, don Muzio Guarnieri, uomo anziano, disgustoso, malvagio e misogino. La bambina sopporterà la mancanza di diritti, le angherie e violenze in un percorso di crescita che la vedrà sempre più consapevole di sè. Come un oggetto, il marito arriverà a cederla come forma di pagamento di un debito ad un suo creditore, il quale non si farà scrupolo a metterla a disposizione di altri uomini dietro pagamento. Nonostante ciò, Martia non si darà per vinta, sarà madre di due figlie che difenderà con le unghie e i denti, conoscerà la solidarietà femminile e anche l’amore.
Ancora giovanissima verrà accusata dell’uccisione del marito. Per lei verrà messo in atto un processo esemplare che vedrà coinvolto addiritttura il Santo Officio che le imputerà di aver stretto un patto con il Diavolo in persona. Per questo verrà decapitata.
Intorno a questa vicenda, Maurizio Ponticello costruisce un romanzo forte, potente e coinvolgente che fa dolorare il cuore. In maniera convincente, rende tutte le contraddizioni di una Napoli crocevia di popoli, culture e tradizioni differenti.
Costellato di fatti cruenti e delittuosi, ma anche ricco di sentimenti d’amore e amicizia, è un perfetto mix tra romanzo di formazione, giallo e romanzo storico. E sono proprio queste sue tante sfaccettature che incantano e non permettono pause di lettura.
Maurizio, dove ha appreso questa vicenda in bilico tra verità e invenzione? E cosa l’ha spinta a scriverla?
È stato un incontro fortuito e fortunato. Mentre facevo delle ricerche sul passaggio tra Cinquecento e Seicento, mi sono imbattuto in un breve poemetto di un cantastorie di strada che riferiva in versi le ultime ore di una ragazza dalla bellezza sfolgorante: Martia Basile. Si tratta di una tipica operetta moraleggiante, niente di più: il poeta, Giovanni della Carrettola, infatti, ammoniva le madamme di comportarsi rettamente, altrimenti avrebbero subito le stesse “contrarietà” della giovane. Immediatamente dopo, però, mi è capitato sotto mano un carteggio tra Filippo Novati e Benedetto Croce: i due studiosi si raccontavano di aver appena scoperto che Martia Basile era veramente esistita. Inoltre, dalle mie indagini emergeva che il poemetto era un insolito best seller: era stato ristampato per secoli fino agli ultimi anni dell’Ottocento.
Pensi che ne ho trovato copia sia nella biblioteca nazionale di Parigi sia a Londra, dove finì sul tavolo di Charles Dickens il quale bollò le rime di Giovanni come una storia “lazzarona” di cui non tener conto. Alla stucchevole censura dell’autore di David Copperfield si deve tuttavia aggiungere quella dello stesso Croce che, per manifesta scabrosità, decise di omettere di rendere pubbliche molte ottine del poeta. A quel punto, nella mia mente si era già fatta strada l’immagine di questa vita acerba, violata e soffocata nel sangue. Ero, e sono, innamorato di Martia. Lei mi parlava anche di notte, e mi pregava di restituirle la dignità perduta. Ho provato un impulso matto di donarle una nuova vita, almeno letteraria, affinché il suo nome riprendesse a riecheggiare tra quelle vie che, secoli fa, lei aveva affascinato e commosso con il proprio carattere indomabile.
Secondo lei, qual è la difficoltà maggiore nello scrivere un romanzo storico?
Riuscire a trascinare il lettore all’epoca dei fatti, e farlo ambientare nel modo più naturale possibile in un periodo completamente diverso dalla sua comfort zone. Non bastano, quindi, l’ambientazione storica o la correttezza delle fonti: bisogna imbarcarsi e fare un viaggio nel tempo, e il primo a doverlo fare è proprio l’autore.
Nel titolo non passa inosservata la parola “vera”? Per quale motivo è stato necessario inserirla?
Il primo a omettere e a censurare la vicenda fu proprio il poeta Giovanni il quale, però, era soggetto al vaglio del Santo Officio: non bisogna dimenticare, infatti, che si era in pieno periodo dell’Inquisizione, e che raccontando una verità scomoda il cantore avrebbe rischiato la vita. Il cantastorie è diventato una sorta di coprotagonista del romanzo.
Nel prologo faccio chiaramente intendere che lui, pronto a narrare la storia di Martia in una piazza, sta anche per occultare diversi dettagli rilevanti. Ci fu dell’altro, quindi, oltre alla censura ufficiale del Santo Officio? Certamente sì, ed è venuto fuori grazie alle mie ricerche caratterizzando l’opera con una forte connotazione noir. Ecco, ho voluto raccontare la storia dietro le quinte del famoso poemetto popolare, quella “vera”, che è tutta autentica ma scritta sotto forma di romanzo per far rivivere le intense emozioni della protagonista.
Non ci vuole niente a scrivere. Tutto ciò che devi fare è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare. (Ernest Hemingway). Lei cosa ha provato nello scrivere questa storia così crudele e ingiusta?
Penso che la letteratura alta debba avere il nobilissimo compito di incidere sulla realtà e, per farlo, spesso deve graffiare, tirare cazzotti, rivelare verità scomode e sbatterle in faccia senza tanti complimenti. Tutto ciò non può avvenire come mero esercizio intellettuale dell’autore ma esclusivamente con la sua diretta partecipazione alla storia che racconta. E ciò vuol dire, appunto, mettersi alla macchina da scrivere, tirarsi su le maniche e cominciare a scuoiarsi fino ad arrivare al cuore delle cose. Sì, sanguinare: non è un eufemismo. Bisogna provare ciò che sentono i tuoi personaggi, avvertire il fuoco che brucia sulla pelle o la lama che ti fa a brandelli. Un altro famoso scrittore, Gustave Flaubert, dichiarò «Io sono madame Bovary», e io penso di poter dire qualcosa di simile di Martia Basile. Fra l’altro, ritengo che l’immedesimazione sia l’unico modo per dare vita vera ai personaggi e creare un’ambientazione tridimensionale. Altrimenti? Semplice, resta un libro di inchiostro e carta.
Credo che questo romanzo possa essere di diritto definito “di formazione”, perché parla di un percorso di crescita, di come si possano superare ostacoli e difficoltà facendo emergere la parte più forte e sicura di noi. È d’accordo?
Assolutamente sì, percorro la breve e rocambolesca vita di Martia seguendo le tappe di un percorso di crescita condizionato dagli eventi: la sua formazione da bambina a donna consapevole che tira fuori le unghie, ed è pronta a mordere e a uccidere pur di difendere se stessa e le proprie figlie. In un passaggio ambientato nei boschi di Ariano, in Irpinia, racconto in chiave simbolica la sua iniziazione: è da lì che comincia il reale cambiamento di Martia.
La sua incredibile forza, l’attaccamento alla vita e all’amore si scatenano, e diventano invincibili prove di audacia che ne fanno un simbolo di coraggio per tutte le donne. Martia travalica l’epoca in cui visse, e arriva fino a noi come testimonianza di una straordinaria attualità. Basti pensare a ciò che sta accadendo in Afghanistan, e non solo, perché anche da noi accadono ancora tante brutalità.
Un pugno nello stomaco sì, ma struggente e affascinante: quella di Martia è una storia di un’attualità sconvolgente. Ancora oggi infatti sono tante le donne vittime di violenza. In alcune parti del mondo, purtroppo subiscono addirittura limitazioni pesantissime alla loro libertà e dignità di esseri umani. C’è speranza di raggiungere la parità tra uomo e donna?
In tutta onestà, non credo, almeno finché uomini (e donne) terranno in vita quella subdola mentalità che ci arriva principalmente dalla visione imposta dal Concilio di Trento. Sono convinto che, anche per la violenza sulle donne, che disgraziatamente a volte sfocia nel femminicidio, tutto sia riconducibile a una questione culturale: è lì che si dovrebbe agire per arrivare a una nuova visione del mondo in cui uomini e donne combattono da alleati. Detto ciò, veramente non capisco, per esempio, come sia possibile che le donne possano aver accettato la condizione da riserva indiana delle quote rose: un abominio politico che fa tanto mainstream, non una conquista.
Da giornalista a scrittore. Cosa cambia nella scrittura e nel punto di vista?
Uno scrittore di romanzi dovrebbe dimenticare di essere anche un giornalista, almeno nella forma e nello sguardo sul mondo. Un giornalista scrive di fatti di altri, osserva la cronaca per descriverla nel modo più asettico possibile; un romanziere, invece, dovrebbe entrare nella realtà – anche inventata di sana pianta – e coglierne le emozioni rimanendone coinvolto. Il mestiere di scrittore è creare una realtà separata, darle vita e fare emergere gli attori dalla scena. Per quanto riguarda il mio lavoro, del giornalismo conservo la capacità acquisita di rintracciare velocemente le fonti e la tecnica di ricerca tipica delle inchieste.
La lingua che lei usa in questo romanzo, pur rifacendosi talvolta a quella teatro della vicenda, è più moderna e comprensibile, oltre che elegante e ricercata. Ciò che colpisce è però la sua potenza, la capacità di far rivivere la realtà storica di una città e di un periodo caratterizzato da tante contraddizioni…
La lingua può più della storia in sé. Raccontare una bellissima vicenda con una lingua rozza svilisce la stessa storia, mentre una bella lingua scorrevole e raffinata può rendere meravigliosa e coinvolgente anche una vicenda all’apparenza banale. Le parole hanno una vita propria e sono pregne di significati espliciti e impliciti, sono soglie che devono aprirsi e assorbire chi legge. Un autore dovrebbe sempre suscitare emozioni, avvolgere il lettore, indurlo a sentire i profumi, a vedere i colori e ad ascoltare i rumori: fargli vivere la scena. Con questo voglio dire che bisogna essere capaci di provocare un’esperienza immersiva e totalizzante. A mio parere, la differenza tra un buon libro e un altro è quasi tutta qui. E la lingua è il suo prezioso collante.
Quanto tempo le ha richiesto la stesura di questo romanzo molto impegnativo per contenuto?
Il tempo più lungo l’ho impiegato nella ricerca delle fonti e nello studio dell’epoca, del pensiero, della topografia della città come delle usanze nobili e popolari. Le faccio un esempio: per descrivere le scenette del sanguettaro e della zia Enrica, e restituire al lettore un realismo così crudo da apparire paradossale, oltre a tutto ciò ho studiato tre manuali specialistici pubblicati proprio in quel periodo. Nel mio modo di concepire la scena di un romanzo c’è la necessità di entrare nel teatro dei fatti, di vedere e capire ogni cosa, anche se poi si finirà per non raccontare certi dettagli che risulterebbero dannosi alla fluidità del racconto.
Questo è il suo primo romanzo storico. Se dovesse continuare in questo genere, c’è qualche altro periodo storico che la affascina in modo particolare?
Al decimo libro pubblicato, penso finalmente di aver individuato la mia strada futura: fondere insieme la passione per la ricerca storica con quella per la letteratura. Ora, infatti, per non smentirmi, dopo Martia Basile mi sto occupando di un’altra vicenda censurata, omessa e cancellata con un vigoroso colpo di spugna. Si tratta di una incredibile damnatio memoriae ma ambientata in un periodo completamente diverso da quello di Martia. Ora sono prigioniero nel tardo medioevo… Lei pensa che potrebbe piacere una storia crepuscolare sul mondo cavalleresco che va in frantumi? Altrimenti, venga a salvarmi.
Dianora Tinti, scrittrice e giornalista