Parla Mattia Corrente: esordiente doc con Sellerio
La fuga di Anna
di Mattia Corrente
(Sellerio, 2022)
Chi è Mattia Corrente
Mattia Corrente, classe 1987, vive in provincia di Messina in un piccolo paese che si affaccia sull’incantevole panorama delle isole Eolie. Conclusi gli studi liceali si è laureato in filosofia e scienze umane.
Scrive per liberarsi di se stesso e sperimentare le vite che gli mancano. Ha un debole per Calvino, Carver, Hemingway, Pavese, le poesie di Ignazio Buttitta e le storie che raccontano i pescatori di Stromboli. Ha collaborato come ghostwriter con importanti case editrici italiane.
Dalle rotative della prestigiosa casa editrice della Sellerio esce il suo romanzo d’esordio: La fuga di Anna. Un libro da leggere, rileggere e conservare nella propria biblioteca privata.
Di cosa parla La fuga di Anna
Anna e il vecchio Severino, la speranza di ritrovare e ricondurre a sé una moglie che è uscita di casa ed è scomparsa. Sulle sue tracce inizia un peregrinare per la Sicilia, un’indagine nel passato, un’immersione nella memoria, un esame delle proprie azioni e delle proprie scelte, dalle quali emergeranno le verità fino ad allora eluse, devastanti e impietose.
Mattia, ci parli di lei e del suo incontro con la letteratura…
“Da quando ero bambino ho lo stesso incubo. Mi ritrovo in piena notte in mezzo al mare, rannicchiato su una lastra di ghiaccio che galleggia precaria sul pelo dell’acqua, circondato da un branco di orche. Le sento sbuffare. I loro respiri si accorciano, diventano ansanti man mano che la lastra, crepa dopo crepa, prende a cedere. Nel sogno succede sempre che non grido perché mi manca la voce. Non ho mai avuto una voce già prima di finire sulla lastra, nella morsa delle orche.
Allora infilo le mani nelle tasche in cerca di qualcosa, le dita tastano frenetiche il vuoto in cerca di qualcosa che non so cosa. Una foto tessera di mia madre, una torcia con le pile scariche, una caramella all’anice, una figurina Panini, l’orologio con le lancette fosforescenti che mi regalarono per un compleanno: ogni oggetto una condanna verso una fine certa. La lastra cede, e sprofondo inevitabilmente nell’acqua alta, alla mercé delle orche, premiate per la loro instancabile attesa. Quando ho cominciato a leggere, nelle tasche ho trovato sempre un libro, e l’incubo è mutato: l’attesa di finire in pasto alle orche non mi ha fatto più paura.
La paura l’ho esorcizzata leggendo. Sono rimasto rannicchiato sulla lastra, a leggere il libro spalancato sulle ginocchia. Una volta Cosimo di Rondò mi gettò una cima dalla mongolfiera portandomi in salvo. Un’altra Santiago, di ritorno dall’estenuante battaglia col suo pesce Marlin, mi offrì un passaggio sul suo peschereccio. Pure Odisseo mi ha trovato. Seppure diffidente – con lui non sai mai quanto tempo per tornare a casa – sono saltato a bordo della sua nave e addio orche. Poi ho cominciato a scrivere. Di nuovo sulla lastra, il buio intorno e le orche in agguato, ma da allora nelle mie tasche ho trovato sempre un foglio bianco e una penna. È così che ho cambiato la realtà di quell’incubo. Così faccio ancora, quando torno sulla lastra di ghiaccio: invento una storia e subito mi ritrovo altrove. Subito libero e in salvo”.
Quali sono i suoi libri di preferiti?
“Negli anni mi sono costruito un canone letterario necessario a costruirmi una voce. “Addio alle armi” di Hemingway, Cent’anni di Solitudine di Marquez, Uno, nessuno e centomila di Pirandello, I fratelli Karamazov di Dostoevskij, Il barone rampante di Italo Calvino, La luna e i falò di Cesare Pavese, Madame Bovary di Flaubert, Memorie di una ragazza per bene di Simone de Beauvoir, Trilogia della citta di K di Agota Kristof, Cattedrale di Carver, Ragazzi di vita di Pasolini.
Ogni lettura è stata per me illuminante, nelle ricerca e nella costruzione della mia identità di scrittore, una identità ancora in itinere. Chi scrive ha il compito di mutare la propria voce in base alle storie che vuole raccontare. Ma è nei libri fondamentali che si torna sempre”.
Come è avvenuto il suo incontro con la casa editrice Sellerio?
“Dopo avere lavorato per oltre due anni alla stesura de La fuga di Anna, seguito da professionisti e collaboratori interni dell’agenzia letteraria che mi rappresenta, la mia agente ha proposto il testo a diverse case editrici. Tra quelle che hanno ritenuto interessante il testo, abbiamo scelto Sellerio.
Per la natura del romanzo – una storia ambientata in Sicilia, di personaggi che parlano il dialetto dell’isola – , per la mia identità d’autore che si sposa con il progetto che da sempre Sellerio porta avanti: una editoria artigianale, selettiva, dove la cura e l’attenzione per gli autori e le loro storie prevalgono sulle logiche commerciali che governano l’editoria in generale.
Sellerio è una casa editrice con una missione ambiziosa che porta avanti da sempre: cercare voci che raccontino storie locali e allo stesso tempo universali, la Sicilia come centro dal quale parte uno sguardo universale sulla realtà. Questo romanzo credo rientri perfettamente in questa missione. Per me, vestire in blu è stata una fortuna. Mi sento a casa”.
Qual è stata la scintilla che l’ha portata a scrivere La fuga di Anna?
“L’innesco è autobiografico. La realtà è stata per me la via d’accesso per l’invenzione. C’è una foto di famiglia sul mobile in soggiorno. C’è sempre stata da che ho memoria ma me ne sono accorto soltanto due anni fa, in una notte d’inverno, mentre svogliato lasciavo il letto per andare in cucina a dissetarmi. La foto era illuminata da una candela che accendeva un angolo del soggiorno. Ritrae la famiglia di mia madre, niente di strano, solo una foto, una di quelle di una volta con lo sfondo seppiato e i colori che sembrano dipinti. Mio nonno, un uomo alto ed elegante, tiene in braccio una bambina vestita di bianco coi capelli lisci e biondi legati con un fiocco. Al suo fianco c’è mia nonna, una donna dall’aspetto algido e serioso. Anche lei tiene in braccio una bambina vestita di bianco coi capelli lisci e biondi legati con un fiocco: due gemelle. Mia madre la riconosco dal broncio, una smorfia di tristezza che dopo la morte di mio nonno – mia madre aveva soli sei anni – è diventata un tratto distintivo del suo viso. Una foto che ritrae un uomo e una donna che non ho mai conosciuto, e due bambine – mia madre e mia zia – che invece ho conosciuto da grandi, donne adulte che si somigliano ancora e hanno costruito vite uguali pure se una lontana dall’altra.
Mi dico: «Ma tu questa storia la sapevi già. Tante volte ti hanno raccontato la storia di tuo nonno, un uomo intelligente, caparbio, pieno di inventiva e grandi progetti che un giorno, mentre tornava in moto da un paese vicino è stato investito da un camion e poi lasciato morire in un letto d’ospedale in circostanze mai chiarite. Tante volte hai sentito parlare di tua nonna, una donna forte e intransigente che ha tirato su due figlie da sola senza mai cambiarsi d’abito, vestita di nero dal giorno in cui è morto suo marito fino alla fine del suo tempo».
Il giorno dopo sono sceso in cantina in cerca di un romanzo di Cassola che mi era venuta voglia di leggere di nuovo. È di mio padre. Lui da giovane leggeva parecchio. Dopo che ne leggi uno, rimettilo a posto in cantina, mi dice ogni volta. Vuole che i suoi libri restino nascosti laggiù. Vai a capire perché. Mentre rovistavo nello scatolone dei libri, ho visto una valigia verde in finta pelle, con le cinghie e le fibbie di metallo arrugginito. La valigia è sempre stata lì. Solo che non me n’ero accorto. L’ho aperta. Dentro c’era un vestito da sposa piegato con cura, un paio di guanti color perla, delle scarpe bianche col tacco che sembravano essere ricamate a mano. Tutto era intatto. La sposa dentro la valigia era mia madre. L’ho riconosciuta. Tante foto ho visto di quel giorno, di quell’otto luglio del 1964, stanno dentro un album seppellito in un cassetto in camera dei miei. Quindi se la sposa rimasta chiusa dentro quella valigia era mia madre perché ho iniziato a immaginare un’altra donna che è pure lei ma non è lei? Chi era mia madre prima di diventare una madre? Perché madri si rimane per sempre. Non si fugge dalla maternità. Una foto di famiglia, di un padre mancato troppo presto, mitizzato da una figlia che ha scelto di scacciare il dolore con il ricordo – forse bugiardo – di un uomo irreprensibile, a tratti più simile a un Dio, che meritava di vivere per salvarci tutti.
Un uomo che ho iniziato a immaginare ancora vivo, là fuori, da qualche parte. Una foto di famiglia, di una madre vestita di nero che sua figlia racconta avere visto sorridere solo prima di morire, dopo avere pronunciato il nome di suo marito. Una foto di famiglia, di due bambine che restano uguali per sempre e io vorrei tanto liberarle da una somiglianza che le perseguita. Un vestito da sposa recluso in una valigia. Un album di nozze che tante volte ho sfogliato senza mai immaginare nulla. Ci sono tracce (foto, vestiti, insomma oggetti) della vita di mia madre, ma ce ne sono poche e mi domando il perché. Casa nostra è un tempio dedicato a me: ogni angolo, anfratto, mensola, è riempito delle mie foto, che non stanno nascoste in un cassetto, non sono chiuse in una valigia. «La mia vita ha cominciato ad avere un senso quando sei nato tu» risponde così mia madre. «Una vita senza un figlio non ha alcun senso. Prima di te io non c’ero. Era come se non esistessi» e mi mostra i resti della mia infanzia (scarpe, bavaglini, una ciocca di capelli sigillata in una bustina di plastica) li tocca e li guarda con occhi trasognati, sono dei feticci della sua maternità. Le prove della sua riuscita.
Ecco, il quadro andava completandosi, avevo la bozza di un progetto narrativo. Credo esistano degli oggetti evento. Oggetti che contengono possibili storie ancora da raccontare, storie che riposano sotto forma di energia potenziale e ancora inespressa. Il compito dello scrittore non è forse quello di trasformare quella energia da potenziale in cinetica?
La fuga di Anna non racconta una storia realmente accaduta ma nemmeno una che non è mai successa. Racconta le visioni letterarie che la storia di mia madre ha evocato. Lo ha fatto coi suoi oggetti che stavano lì, in attesa di trovare una voce depositaria. Ho immaginato una donna diversa da lei, lei che è l’esempio calzante di quello che la società chiede a una donna: realizza il tuo destino biologico a tutti i costi, sei fatta per avere figli perché la natura ha deciso così. Se non sarai una madre per te non ci sarà un posto nel mondo. Mia madre incarna quel costrutto sociale della sacralizzazione della maternità che rimane ancora oggi un caposaldo della società contemporanea. E io ho creato Anna, una donna che non vuole un bambino, priva di quell’istinto materno, anch’esso un costrutto sociale, che prima o poi arriva – così dicono – quando l’orologio biologico comincia a ticchettare e una donna non ha più scelta, una donna che vorrebbe liberarsi di quel destino. Come sarebbe stata la vita di mia madre senza il fardello della procreazione?
Senza l’imperativo: Fa’ figli, prima che sia troppo tardi… Anna è, in un certo senso, la risposta. Anna è, in un certo senso, l’antagonista di mia madre. Lo è non di certo perché sceglie di non essere una madre, non a caso lo diventa. Lo è per quella battaglia interiore che termina in una fuga, una ribellione tarda che però arriva. La storia di una maternità dove l’istinto materno non esiste, dove una madre mette al mondo un figlio perché il destino di una donna è segnato dal peso della procreazione. La fuga di Anna racconta anche una verità sulla libertà che non avevo ancora scoperto: un’illusione che imprigiona chi la sceglie a discapito degli altri insieme a chi si ostina a non sceglierla per non ferire nessuno. La libertà può contenere violenza. Questo romanzo racconta anche il perenne rincorrersi di quando si vuol bene, si promette perché si vuol bene, e si mantiene anche a costo di perdere se stessi”.
Ci dica qualcosa sulla trama…
“Non posso. Questo è un romanzo che se racconto qualcosa sulla trama rischio di raccontare la mia versione della trama. La fuga di Anna non ha una trama soltanto, ma una per ogni lettore che ne intraprende la lettura. Credo sia una questione di libera scelta per il lettore.
Potremmo raccontare di un vecchio che, sulla soglia degli Ottanta, parte alla ricerca della moglie scomparsa per riportarla a casa. Oppure di un vecchio che usa come pretesto la scomparsa di sua moglie per scoprire la libertà negata, disseppellire le sue identità mai intraprese per colpa di una promessa mantenuta a tutti i costi: sposare e rendere felice Anna. Severino che, quando Anna scompare, la sua identità di Severino lo sposo va in pezzi e là fuori, nel suo viaggio a ritroso nel passato, riemergono i sé negati e quelli intrapresi a forza per amore.
Potremmo raccontare di Anna, una donna che per tutta la vita vive non vista, e dopo avere ubbidito per una vita intera all’ordine perentorio della madre, finalmente, sceglie la fuga per la libertà, quella libertà che suo padre le ha trasmesso come fosse una malattia genetica, di famiglia. Anna che, anche se tardi, smette di vivere divisa tra se stessa e gli altri. O ancora raccontare la storia di Peppe, un uomo che voleva diventare un altro e non ce l’ha fatta. Scegliete voi”.
Quanto tempo ha richiesto la stesura del libro?
“Più di due anni e quattro stesure. Questo è un romanzo al quale ho smesso di lavorare con difficoltà. Fosse stato per me, lo avrei riscritto altre quattro volte ancora. Non volevo lasciarlo andare. Quando si vuol bene a qualcuno funziona così giusto? Gli addii sono un trauma”.
Progetti per il futuro?
“Ho deciso di cambiare voce. Sto lavorando a un progetto narrativo davvero distante da questo esordio. Chi scrive, credo, debba intraprendere strade nuove per mettersi in gioco.”
Intervista a cura di Fausto Bailo con la collaborazione della Premiata Libreria Marconi di Bra (CN)